Dall’iconoclastia all’arte contemporanea 4

a cura di Alex Cantarelli

Parte II.

Le radici teoriche dell’iconoclastia.

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1.

La distruzione delle immagini, tendenza presente occasionalmente in ogni epoca storica, ha avuto un impatto sicuramente grave nella produzione delle opere d’arte e nell’evoluzione delle tecniche, più grave dell’effetto delle distruzioni in sé, per quanto tristi e rilevanti.

Vorrei articolare una gamma di specificazioni, distinguendo una iconoclastia “interna” da una iconoclastia “politica”, politica nel senso di polis, di azione in un ambito sociale e politico che abbia ripercussioni sulla vita di una comunità. E vorrei definire il fatto che l’iconoclastia di carattere politico ha affinità fondamentali con l’iconoclastia interna perché fondata su quest’ultima.

L’iconoclastia religiosa, fondamentale per comprendere l’iconoclastia politica, si fonda idealmente su un precetto dell’Antico Testamento “Non ti farai idolo né immagine alcuna” (Esodo 20,4) che presenta però difficoltà esegetiche – le versioni del passo sono molteplici e riportano la traduzione del termine אליל) eliley) a volte con “idolo” altre con “statua”. Ma l’ebraico biblico usa יםִ ילִ לֱ אָה (haelilim) come “dei”, quindi אליל non può essere tradotto letteralmente come “altri dei”, come alcuni intendono. Il precetto dell’Esodo è invece, letteralmente, non “fare” idoli, non costruire un artefatto che “rappresenti” la divinità, proprio perché la divinità stessa è incommensurabilmente più grande di qualsiasi rappresentazione . E’ un dato storico che il precetto derivi dai cattivi 12 comportamenti del popolo d’Israele, che adorava simulacri. Pur tuttavia è chiaro che il precetto per il popolo è più precisamente quello di non “incastonare” Dio in un simulacro, per non incorrere nel problema di non distinguere più un simulacro dall’altro – correndo così il rischio di un’apostasia.

Che tale precetto possa essere interpretato come un “divieto all’arte” è una forzatura enorme, che non tiene conto del contesto e della lettura contestuale delle Scritture. Se una traccia di sensatezza può esserci in tale divieto esso risiede nel pericolo politico di confusione dei credo religiosi. Ma, al di là di tutto, concettualmente il precetto dichiara in modo evidentissimo la differenza tra idea e rappresentazione, e sottolinea quest’ultima come una differenza con adeguamento tendente ad infinito: se si vuol fare cioè un’immagine di qualcosa che è ontologicamente non racchiudibile in una immagine si incorre in un guasto ontologico, in un’illusione che genera simulacri.

Il Sofista platonico si inserisce in questa scia concettuale, con l’analisi della realtà delle idee e la loro giustificazione ontologica. Il fondamento ontologico della differenza serve, nel pensiero platonico, alla giustificazione delle idee, non delle rappresentazioni. Platone tenta una riconciliazione tra i mondi, con la definizione di mimesi icastica, nella quale le idee sono rappresentate da una immagine fedele all’originale, e di mimesi fantastica, nella quale le idee sono travisate e non riprodotte fedelmente. Nella pur pressante e diffusa idiosincrasia platonica per l’arte, il corpus concettuale di Platone giustifica perlomeno il rapporto tra idea e rappresentazione e ne fa un rapporto possibile, difficile da riscontrare nella sua veridicità ma pur sempre possibile.

Quello che opera Platone non è un divieto, sebbene la riflessione sull’arte sia a tratti indubitabilmente permeata di un certo sdegno, bensì una differenza e la costruzione di un’ambivalenza. Potremmo dire che in fondo l’intera riflessione platonica sull’arte, perlomeno per quanto concerne una teoria della rappresentazione, possa essere interamente riflessa dal passo del Fedone: “Non si ha virtù vera se non è accompagnata dal sapere, […] badiamo che allora cotale virtù non sia come uno scenario dipinto (µὴ σκιαγραϕια τις ῇ), virtù veramente da schiavi, senza nulla di saldo né di reale.” Gli 13 esempi relativi alla differenza ontologica e la conseguente dilatazione della verità, che riguardano lo “scenario teatrale” o scenografia sono molteplici nell’opera di Platone. Sono frutto di una riflessione sull’arte come su di un ambito non-ambito, su un settore artigianale servo della finzione.

Ciò che Platone vuole portare sulla scena del dibattito è appunto la verità dell’idea, come visione non-visione, o visione non corruttibile o riducibile. I luoghi platonici in cui ritrovare il senso di un esempio, quello dell’arte pittorica, non necessariamente in sé degradante, bensì utile alla rappresentazione della teoria delle idee, sono veramente molti . 14

Il dibattito è complesso ed irriducibile a poche affermazioni perentorie. Sta di fatto che esiste una certa assonanza tra lo schema categoriale dell’iconoclastia biblica e il ventaglio di determinazioni che Platone usa per definire il rapporto tra idee e realtà rappresentata. L’ipotesi è che nel dibattito platonico sull’arte, al di là di ogni risonanza politica, sia contenuto un tentativo di definizione del rapporto, più generale, tra idea e rappresentazione non veridica dell’idea, o meglio tra εἶδος e εἴδωλον, idolo. εἶδος non è per Platone un termine astratto, nel senso in cui possiamo intenderlo oggi noi, ma un termine concreto, che deriva dalla radice indoeuropea *weyd-, ovvero “vedere”.

Un parallelismo tra precettistica biblica e pensiero idealistico platonico risulta possibile solo immaginando l’enorme bacino di teorizzazioni che permea il mondo antico e che prima proibisce poi indirettamente giustifica la differenza ontologica – ovvero, in questo caso, la rappresentazione di un’idea nella rappresentazione artistica. La teoria dell’arte ha una discendenza antichissima15.  

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Note 

12 E’ significativa la storia del serpente del quale Mosè, su sollecitazione di Dio stesso, costruisce un’immagine da 12 apporre sul suo bastone. Tale immagine salverà gli ebrei dai morsi delle serpi reali, mandate da Dio come punizione. Gli ebrei poi prendono ad adorare la statua del serpente sul bastone di Mosè (vd. 2 Re 18, 4).

13 Fedone, 69 b. 13

14 cfr. ad es. Ione, 533a e Gorgia,448b in cui si opera una distinzione, ad esempio tra pittori buoni e pittori non buoni

15 cfr. sull’argomento il celebre saggio di Erwin Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, Firenze 1996 e la 15
chiara prefazione di Maurizio Ghelardi al testo.