Interviste
Gli spazi interiori della musica elettronica
Intervista a Antonio Pileggi circa la rassegna Inner Spaces
La sala è gremita di giovani dalla bellissima espressione vissuta. L’uggiosa serata di un qualsiasi lunedì milanese ne ha visti arrivare molti altri, ben oltre la capienza. Il luogo, architettonicamente elegante e sapientemente curato, lo conosciamo già da tempo. Da qualche anno è impreziosito dagli scenari di spazializzazione sonora multicanale offerti dall’Acusmonium Sator disegnato da Eraldo Bocca, recentemente potenziato fino agli attuali cinquanta diffusori disposti in tre corone concentriche. Un’orchestra di altoparlanti unica in Italia, creata per immaginare il suono slegato dalla sua sorgente, in uno spazio a più dimensioni (così recita il flyer, ma non avremmo saputo trovare parole migliori).
Non siamo a un evento ‘in’ del Sonar di Barcellona, ma a due passi, fisici e non, dal Duomo di Milano. L’Auditorium è quello del Centro San Fedele dei gesuiti, la confraternita che ha regalato alla città anche il più grande arcivescovo dell’era moderna.
Al San Fedele si fa cultura da tempo immemore. Qui abbiamo sentito parlare registi e attori di fama mondiale, ascoltato con passione quell’approccio etico e al contempo tecnicamente ineccepibile di criticare, recensire, giudicare libri e film. Luigi Bini, animatore culturale dagli anni ’50 ai ’90, è stato uno tra i più grandi esegeti del cinema e della cultura. Il sociologo Giuseppe Brunetta, che si è formato negli Stati Uniti, sapeva incantarti quando parlava di fenomeni sociali e libri. Tutti preti, entrati in seminario a dieci o undici anni. E c’era la gloriosa rivista “Letture” fondata nel 1904 da monsignor Giovanni Casati, cui sono subentrati i gesuiti nel 1946, che ha chiuso i battenti nel 1994 dopo essere stata rilevata dalla San Paolo. Cancellata dalla storia per l’accumulo di un passivo economico non più sostenibile, ha lasciato in eredità un patrimonio culturale inestimabile, conservato nel cuore dei suoi lettori. Le leggi del mercato non rendono immuni le riviste letterarie indipendenti: se vuoi mantenere la libertà, devi pagare i conti di tasca tua.
Così raccontava il fustigatore di Montanelli, Alessandro Scurani, direttore dal 1979 al 1994: “Nel 1945, dopo 162 anni dalla soppressione, i gesuiti rientrano a San Fedele. Il cardinal Schuster, come contropartita chiese loro di continuare il servizio già svolto dalla rivista di letture di monsignor Casati. Con il gennaio del 1946, subentrano quindi i gesuiti: la nuova testata si chiama ‘Letture, rassegna critica del libro'”.
Antonio Pileggi è oggi responsabile del settore musica. Introduce la seconda serata della rassegna Inner Spaces parlando di Francisco Lòpez con la linearità di chi possiede una profonda competenza. Lo ascoltiamo senza mai inciampare nell’ego che solitamente pervade il sedicente critico di turno, invasato dalle quattro nozioni imparate su Wikipedia. Semplicità e precisione accompagnano le sue parole (del resto, la biografia di compositore e concertista parla per lui). Capisci che è prete solamente per la piccola croce appuntata sulla giacca.
Lo raggiungiamo al telefono un paio di giorni dopo, per farci raccontare qualcosa in più di questi ‘spazi interiori’ evocati dalla rassegna e portati alla fisicità dal prodigioso impianto acusmatico di diffusione del suono: “Uno strumento al servizio dell’ascolto, non un gadget da esibire” ci ricorda giustamente alla fine della chiacchierata.
Che opportunità offre alla città l’impegno del Centro San Fedele verso una proposta di qualità della musica elettronica?
Quando nel 2011 abbiamo pensato a questi percorsi, sapevamo di poter intercettare una domanda ampia e forte presente a Milano da parte di un pubblico giovane. L’intento è di tipo partecipativo, non di semplice proposta musicale, magari confusa. Lo spazio e i contenuti che proponiamo ci consentono di offrire le condizioni per un ascolto contemplativo che possa far cogliere la bellezza e la forza intrinseca nella musica elettronica. Selezioniamo gli artisti in base agli obiettivi che ci poniamo, spiegando loro che tipo di percorso ci interessa offrire.
Come avviene il coinvolgimento?
Li contatto io direttamente, fortunatamente molti di questi artisti gestiscono in proprio la loro vita professionale. Ci scriviamo, ci sentiamo, parliamo degli obiettivi che desideriamo raggiungere. Li invitiamo in residenza chiedendo loro di condividere con noi per qualche giorno le scansioni della nostra vita di religiosi. Insieme viviamo gli spazi. Ricordo ad esempio quando Stephan Mathieu ha visitato la chiesa di notte: ho ancora negli occhi la sua capacità di restare in un silenzio raccolto e la sua gioia per avergli offerto questo momento di meditazione. Alcuni artisti hanno un senso musicale capace di creare qualcosa di importante ed è con questi che entriamo in relazione, per pervenire poi a un invito vero e proprio.
Le è mai capitato di trovarsi di fronte ad artisti disorientati dal fatto di essere coinvolti da una comunità religiosa? Non tutti, immagino, conoscono la storia culturale del San Fedele…
Ci sono state piuttosto esperienze sorprendenti di tipo positivo: spesso sono gli artisti stessi a fare domande e instaurare un dialogo. Con Robert Henke lo scorso anno abbiamo pranzato e cenato spesso insieme. Mi chiedeva come mai sono diventato prete; tante domande le ho fatte poi io a lui. Lentamente, si crea un ascolto reciproco che evita qualsiasi pregiudizio. Sovente, anzi, nasce una stima profonda, che apre a discorsi e confidenze sulla spiritualità più in generale.
Le sue ampie competenze musicali derivano dagli importanti studi accademici. Tuttavia, la musica elettronica possiede molte sfaccettature e non è sempre facile da decifrare. Come riesce a mantenersi aggiornato dovendo scegliere personalmente gli artisti da invitare?
Ho una formazione da compositore di brani strumentali e da sempre ascolto moltissima musica moderna, da Stockhausen alla musica d’avanguardia e concreta e le diverse correnti dagli anni ’60 agli anni ‘80. Da qualche anno mi sono dedicato ad ascolti più attuali, scoprendo con sorpresa un universo interessante anche tra gli autodidatti. Credo di avere la capacità di comprendere la qualità di quello che ascolto sotto diversi punti di vista.
Lei è diventato prete molto tardi, dopo aver sviluppato una carriera musicale ad alti livelli: come è nata questa scelta e come si è incrociato il suo cammino di religioso con il San Fedele?
Ognuno di noi ha una propria vicenda personale: la mia è che sono stato ateo per una ventina d’anni. Poi dal ’95 al ’98, dopo i trenta, ho vissuto un periodo di ripensamento e di travaglio interiore che mi ha portato prima alla conversione e poi alla chiamata vera e propria. Sono entrato nella Compagnia dei gesuiti in Belgio e in seguito ho chiesto di poter fare apostolato in Italia. Quando sono stato inviato a Milano nel novembre del 2009, mi è stato chiesto di accorpare una programmazione musicale all’insieme delle attività del San Fedele. La sede era in fase di ristrutturazione ma non era stato previsto niente per riqualificare l’acustica dell’Auditorium, molto problematica per la musica strumentale. In extremis, un ingegnere con cui ho parlato ci ha consegnato un piano di interventi per risolvere tutti i difetti acustici, con un risultato eccellente.
In che modo la musica, sviscerata così profondamente nelle sue esperienze, ha contribuito alla scoperta della sua vocazione?
Ne ho parlato a lungo con Francisco Lòpez in questi giorni: in realtà sto scoprendo adesso questa vena spirituale della musica. Durante gli anni di ripensamento sono state altre le esperienze che hanno influito sulla mia conversione e che mi hanno aiutato ad aprire gli occhi su questa realtà del cuore. Ad esempio i soggiorni in Venezuela e le persone incontrate là. Poi l’aver letto tutta l’opera di Antonin Artaud, che mi ha scosso parecchio, aprendomi a questa presenza forte di Dio. E naturalmente, in primo luogo, il Vangelo.
Parlando del coinvolgimento di un pubblico non abituato a questo genere di cose, che frutti sta dando il proporre un punto d’incontro tra laicità e religiosità mediante l’esperienza spirituale possibile nell’ascolto della musica elettronica?
Ogni uomo è capace di aprirsi a queste esperienze, sono cose che tutti abbiamo dentro, indipendentemente dal fatto di definirci laici o religiosi, di questo sono convintissimo. Essendo legata al senso dell’udito, la musica è uno dei linguaggi che più di tutti offre una connessione fortissima con l’ascolto, con l’aprirsi all’altro, col prestare attenzione a chi mi può comunicare qualcosa o indicare un cammino. Privilegiamo la musica elettronica rispetto ad altri percorsi musicali di avanguardia perché ha saputo conservare un senso di narratività, un camminare, un procedere. La maggior parte di queste performance durano 45/50 minuti e possiedono una dimensione sinfonica con un inizio, una fine, un percorso. Questo mi sembra un punto di contatto straordinario tra le diverse esperienze spirituali, almeno noi al San Fedele le proponiamo in questo modo. C’è l’oscurità, l’attenzione richiamata nella presentazione, poi il lasciarsi condurre o resistere alle sensazioni suscitate dall’ascolto.
L’obiettivo di Inner Spaces è innescare un’esperienza diversa da quella che solitamente si ottiene ascoltando la musica elettronica dal vivo, dove magari le distrazioni di tipo ambientale e visivo sono eccessive…
Esatto. Il senso non è quello di produrre un’esperienza strana o replicare quella dei club, ma di offrire una partecipazione austera, perciò esigente. Ad esempio, Lòpez ha chiesto silenzio, ha distribuito a ciascuno una benda per coprirsi gli occhi e favorire il buio. Insomma, il pubblico deve accogliere tutto questo come un’attenzione ai contenuti. Anche per questo non abbiamo elementi spettacolari, come i visual o altro che entra in conflitto con l’attenzione dell’ascolto. Però ci sono performance audiovisive in cui il rapporto suono-immagine è pensato fin dall’inizio. La gente deve potersi calare in un viaggio, dove non si sa da dove si parte e dove si arriva.
Lòpez ha proposto una performance in cui le dimensioni sonore sono apparse molto fisiche, stratificate, indubbiamente esaltate dall’impianto acusmatico. Anche il bendarsi, se vogliamo, è un’esperienza fisica. Come si è evidenziato, secondo lei, l’aspetto del guardarsi dentro?
Direi che la fisicità della performance di Lòpez sta solo nel punto di partenza, sia nel mettersi le bende, sia nell’evocazione dei suoni. Se ha fatto caso, in tutta la parte finale, negli ultimi dieci minuti almeno, sono arrivati questi suoni di trombe acute, melodie molto stabili. Ne abbiamo discusso dopo il concerto e, in effetti, lui parlava di elevazione, raccontando le esperienze che ha avuto in Georgia con i canti ortodossi. Gli ho riferito di aver ascoltato queste trombe quasi come un riferimento al libro dell’Apocalisse, e lui era d’accordo. Si parte sempre da un contesto di fisicità, dell’orecchio, eccetera; ma questo ci porta a scoprire qualcosa di profondamente radicato nel linguaggio dell’artista. In questo caso, il concetto di elevazione, quasi una vittoria delle voci celesti che si innalzano sopra i passaggi di suono più industriale o della natura. Ci siamo ritrovati molto in questo scambio.
Come viene utilizzato l’Acusmonium nelle vostre proposte culturali?
Lo strumento si presta per un utilizzo in diversi aspetti, l’importante è che ci sia sempre una valida motivazione. Ad esempio, lo usiamo nel cinema, ma devono essere pellicole con una qualità sonora e cinematografica di un certo livello. Lo abbiamo usato in una rassegna dedicata a Tarkovskij a questo suo modo di fare cinema in cui tutte le dimensioni sono riunite. Lo useremo prossimamente per Malick. Ne beneficia la partecipazione, l’esperienza d’insieme che ci unisce agli altri nell’ascolto di un’opera d’arte. Il senso dell’udito è quello che, fra tutti, partecipa con maggiore pienezza. Lo utilizzeremo anche nella musica strumentale, dove sia possibile creare uno spazio sonoro, una realtà fisica di forte esperienza. L’importante però sono i contenuti: di per sé l’Acusmonium offre solamente un migliore ascolto. Anche in questo, se vogliamo, risiede l’aspetto etico delle cose che proponiamo al San Fedele.
Il prossimo appuntamento di Inner Spaces è il 14 marzo con Bellows (progetto di Nicola Ratti e Giuseppe Ielasi) e con Robert Lippok, noto anche per i suoi percorsi di elettronica più fruibile nei To Rococo Rot insieme al fratello Ronald e al bassista Stefan Schneider.
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