Allora scriverò, no, non scriverò più, intaglierò parole nel bosco
estrarrò radici di baci e lingua, tutto il mio sentire reso disponibile
a Dio, per la gloria del suo indice volatomi in seno, io tacerò
il silenzio che avviene nell’incavo e sulle alture dei cipressi
ove cantano i morti e i flauti del mare; la mia vagina è spuma.
Ecco che viene, a raccogliermi, come fossi divenuta alga,
pesce muto di speranza, spiaggia del mio pianto al mondo,
viene, l’amore ad espropriarmi delle omissioni, degli ammanchi,
del mio uccello pigro che il nido fabbricò su di un’ isola. Perdono.
Avvengo al mio assolo come sasso in un prato, esfoliato dalla
ruvidezza, poro di pelle aperto e nudo, per perdono e dolore
rimastomi in petto, per perdono e dolore che ho taciuto. Sasso.
E non so spiegarmi più, se ora taccio e mi schianto, non so
spiegarmi poggiata sulla fronte del mio nascituro, io madre
a farmi statua e corpo tra le braccia; tu, marmo
e il seno alla bocca tua, no, perdono per le mie altezze rosa
io non posso più fabbricare morte se ho te, cuore, se ho te.
La resa, la resa, l’oblio, la resa, lo schianto, lo scolo, il mio
apparato, il mio parato volo, io, figlio non posso ancora
mollarmi se tu mi tieni a palloncino e volo, tenuta dal
piccolo filo, in trasparenza e riposo, tra la nuvola e Dio.
E passano calpestandomi, e mi rialzo che ancora non sono
in piedi, mi rialzo, che piango. Tu ridi. Lasciami il filo.

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