“Vieni”, detto senza bocca, con gli occhi; no, meglio: con un ingigantimento della manifestazione dell’essere; “vieni” – e lui si era avvicinato –; l’aveva fatto entrare nel circolo della seduzione, in cui si inizia a parlare perché, in fondo, tutto è stato già detto. Lei lo aveva attirato. Era stata la sua magia; la sua colpa? E lui, ora, era vicino? Perché il suo corpo era un esercito di contrasti: sussurrava da lontano; ed era vario come un incantatore che sa variare le sue metamorfosi.

Ma lei, lo aveva davvero attirato? Perché il passo con il quale lui si era avvicinato, avvicinava allontanando; riduceva ed apriva nel medesimo tempo – con uno stesso passo che avanza e poi si nega – la sua propria distanza.

[Lei, dunque, non lo aveva ancora attirato?]

Ti avevo detto “vieni”, nel giorno che si consumava lentamente, sotto un cielo che pareva un campo di grano incantato; ma cosa era accaduto nel tempo prima del verbo? Sarà che tu, ancor prima di me, avevi portato in te stesso la forza magnetica del “vieni”? Vieni! E io mi ero avvicinata, e tu mi avevi fatto varcare lo spazio di chi è sedotto e non di colui che seduce. Sei stato tu ad attirarmi. E’ stata tua la magia. Eppure mentre mi avvicinavo, irragionevolmente ti allontanavi dal verbo che rendevi manifesto. Non eravamo due stelle gemelle. Io adesso ti ero vicina, tu eri soltanto presenza; presenza usata disonestamente (?), accordata alla sovranità perché tu volevi essere il profumo del giardino?, io colei che lo doveva odorare?

Lei no (!), non si lasciò prendere nella trappola della legge, destinata a essere inchiodata nell’unica figura della sedotta; cosicché mai ti fu troppo vicina, mai poco vicina da ridursi in assenza; sempre trattenuta perché tu non eccedessi; sempre controllata a misurare la forza della tua attrazione.

E se lei, ora, cedesse? – lei, la donna che si è mantenuta disperatamente sulle acque.

E ti dicesse “vieni”, non come citazione, non come evocazione di un’eventualità, ma: “Vi e n i”, senza che fosse ordine, senza autorità, senza gerarchia; e tu venissi per davvero, e fossi qui, sulla sua bocca.

“Vieni”. Pronunciato così sarebbe il rischio più grande. Già il suono mi turba perché m’attraversa il pensiero che, se lo volessi, riceverei da esso quel supplemento di forza per dirti: “Vieni”. E sarebbe il rischio più grande: il bacio che mi oblierebbe l’attesa di esserti amante, il giuramento a n o n esserti (infinitamente) alle labbra.

“Vieni”. P e r c h é non oso dirlo? Ho paura di morire sulla tua bocca? Ché vita è infinito intrattenimento del non bacio? Nell’inferno dolcissimo, seducente del passo che va alla bocca e poi si nega? Mentre gli occhi attendono l’attimo – fatale – per morire.

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