finis terrae
per rincorrere una verità oltre il corpo, il ragazzo ha costruito un universo intero. lo ha popolato di regine, ballerine, spose bambine. ha fornito a tutte il prerequisito della gioia, ha inoculato l’antidoto a ogni dolore. da quella parte, la luce ha cancellato i mostri e i filistei e la paura di un abbandono immaginario o reale. da quella parte, si vegliano abitualmente i successi e sono tutti persuasi dalla centralità del desiderio. il reale perde così la sua rilevanza e per rincorrere una verità oltre il corpo il ragazzo ha strutturato il suo proprio cosmo, a misura di ideale, senza neanche l’ausilio della tecnologia. lì è la sua corona di scozia, lì è l’impero ritrovato: le lotte per il potere non sono contemplate e i gatti hanno i nomi degli uomini. la luce filtra attraverso reti neurali incomplete, la storia segue sempre il corso auspicato, il destino è il principale alleato. per rincorrere la verità oltre il corpo, il ragazzo forse ha barato, ma d’altra parte nessuno può conoscere le regole di un gioco di parole in una lingua sconosciuta. le galassie si allontanano a velocità incommensurabili, stringhe di numeri complessi appaiono e sono immediatamente neutralizzate. il dormiveglia è un iperspazio dove il pensiero potrebbe collassare, ma il ragazzo non ha più sistemi di riferimento. per rincorrere una verità oltre il corpo, il ragazzo ha separato il grano dalla pula, guadagnandosi la vana immortalità delle parole.
mi pare di vederti volare – il ragazzo vorrebbe dirle – mi pare che tu abbia messo in discussione molto del tuo spazio – il ragazzo finge di non saperlo – mi pare che tu sia più in alto, non ne sono sorpreso. se il tuo amore per le parole, l’amore del ragazzo o per il ragazzo, è ricambiato – come se avesse scelta – allora il cielo è terso, ma comunque mi pare di vederti volare. il territorio della parola era fertile da prima che ti conoscessi, ti destabilizzano più le assonanze o i fatti, che mentono sempre? nella parola è la musica e il suono alla fine della musica: lo senti il canto muto degli uomini? io maschio eterosessuale bianco dovrei metterti in guardia e dunque: arranchi nel pantano e ti chiedi se, aprendo gli occhi, la luce ti brucerà le retine. vedere è conoscere, conoscere è giudicare ma soprattutto fasci di fotoni sono lame e sai di non essere diventato cieco, di non esserti mosso di un millimetro. statua di ossidiana nera riflettente, inglobi ogni visione immobile e con la tua aura proteggi. nel tuo pensiero, nella malattia di una casa perduta è il tempo che condensa, nella nostra divisione è amplificata la risonanza – ancora, di nuovo, il suono al termine della musica, l’eco delle lacerazioni, la radiazione cosmica di fondo – lo spazio in mezzo è un non luogo, dove tutto avviene e la trama si sviluppa in nostra assenza. la ragazza una volta disse: non l’ho dimenticato, l’ho spostato. facile se comprendi che lo spazio è infinito e possiamo imprecare contro il tempo che spolpa gli organi e pietrifica i bulbi oculari, soprattutto adesso che mi pare di vederti volare. lo spazio è infinito ma a disposizione di pochi e quei pochi occupano il massimo spazio possibile, secondo la legge delle omissioni; non so se raggiungeremo mai certe galassie, che più sono lontane e più sono note, popolate. altre forme di vita sono messe fuorilegge nella tempestività crudele dell’universo e parole che si perdono delineano l’ennesimo possibile, prevedibile e inaccettabile epilogo: uno dei delitti è l’assenza di testimoni, anche adesso che mi pare di vederti volare.
il ragazzo è rimasto al palo, alla circonferenza descritta da un moto che è al tempo stesso richiamo e preludio al distacco. gli occhi lucidi sul potere di ricordare ciò che è andato dissipato: un amore semplice, doveroso per il prototipo funzionante del modello migliore, che strappa la pelle e rievoca il lutto, nell’anno solare, nel trigesimo della morte, nella notte di veglia. oppure il ragazzo può fingere e provare a sorridere, l’illusione di un battito di ciglia, lo sforzo immane dell’ironia. brevi cenni di cronaca familiare si stendono come tappeti sotto la salva delle nostre parole, per ricordarci da dove veniamo – un’operazione indolore, l’avresti mai detto? – la forza che torna nelle gambe incrociate sul palo, ma non sarò così composto da non mostrarti dove ti conservo, da non farti ascoltare l’ultima canzone: la voce, un delitto occasionale, il tuo ammonimento di non reiterare. un allarme l’escissione di parti di te e non so se faranno la stessa fine di quel prepuzio esuberante. prova a non ridere, ci siamo strappati via ciò che non abbiamo scambiato. un virus integra il proprio codice genetico nella cellula ospite per sempre e da questa infezione il ragazzo non guarirà. il fallimento della profilassi è un canto di guerra, non resta che ritirarsi entro i maldestri confini di uno stato mediorientale in silente fibrillazione. un albero maestro piantato nel fondale marino accoglie colonie di coralli e prima di diventare albero era lampione davanti all’empire state building e bacheca per segnali di fumo, la nostra ultima splendida arecibo ma, non trovando le parole, il ragazzo è rimasto al palo.
allora smorza, ripeteva, smorza. in mezzo al caos dell’ingorgo, nell’atto mancato del fluire, della promessa non mantenuta, delle esplosioni fragorose dell’assenza. è la mente che mi punisce? da questo ammasso organico che reclama l’ineffabile di pelle e polpa, deformate per effetto della pressione o sotto il peso di un corpo. un grave cade, ma non considerare moti traslatori e rotatori, mentre segui una traiettoria e pazienti nella turbolenza, nella paura, nel candore. le notti si avvicinano come fendenti, regolarità di un rituale espiatorio, puoi enumerare le immagini in sogno: una casa, una stanza, un oggetto, una reazione veemente allo stato delle cose, un episodio irrilevante si fa di colpo simbolo e simulacro, ti accompagna al tramonto successivo. smorza, allora, alza la testa e non piegarti alla forza della bora, al trionfo dei corpi cavernosi celebrato sulla sua bocca, in onore e gloria del tuo ricordo, smorza il frastuono di qua dal petto rigido, allenato e cavo, canta con me – avrebbe potuto chiedere – una volta, una volta sola, ma una volta è nessuna volta eppure – canta con me anche se hai perso la voce tra i tuoi vent’anni, leggi dunque il labiale, immagina il suono e trattieni il respiro, una volta, una volta sola, temo di avere molto tempo prima che, prima di. smorza, senza smorzare il canto, fino all’emorragia vocale, estendi la gola a canna d’organo e genera l’onda, infrangila sui timpani impotenti, sono due anni che, sono due anni che è sbocciato il silenzio, dalle ossa coperte da una giacca troppo grande per una carne ingravescente, andar via prima del previsto, mancare la diagnosi, era il minimo che potesse fare. cambiare le serrature, chiudere tutto e fare le valigie, per l’ultima volta dopo trecento anni, l’umiliazione di fine impero. smorza, sforzati per loro, così semplici e giovani, di una bellezza senza pudore, che si permette inusitate sciatterie e, indulgente verso la tavolozza incolore, metti loro sulla strada, sul rettilineo dove tutto è andato perduto e barcolli – ma lo noti solo tu, perché sei invisibile – e sollevi poca polvere, fai poco rumore, da sempre.
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