La poesia contemporanea è anche performativa
“Se c’è lavoro e salute siamo tranquilli” è quello che chiunque sia nato da genitori vissuti durante il boom economico si sente ripetere come il ritornello di una hit estiva. Sulla salute c’è poco da dire, mentre sul lavoro avremmo molto su cui ragionare: sulla politica del merito, sul metro di giudizio dello stesso merito, su come sia cambiato il mondo del lavoro negli ultimi cinquant’anni e sull’essere costantemente performanti, essenza di un capitalismo ormai di altri tempi; non è infatti un mistero che quest’ultimo punto sia proprio quello che più di tutti sta portando il lavoro a una imminente rivoluzione, nonché il segno della differenza più evidente tra millenials e gen z nell’approccio al lavoro.
I social network indubbiamente giocano un ruolo molto importante nel rendere tutto non solo performante, ma anche performativo: la coppia di ragazzi che comprano carte da gioco, quello che compra strumenti musicali usati, quello che tratta gli orologi, quell’altro che fa compravendita d’oro: il passaggio da performante a performativo è ormai obbligato per chiunque voglia ampliare la platea alla quale rivolgersi. Se questo vale per molte occupazioni più o meno tradizionali, perché non può valere anche per la poesia?
Troppo spesso la poesia è circondata da un’aurea che incute timore e ricordi di noiose lezioni di letteratura delle superiori, lezioni rese ancor più noiose da quella cosa traumatica che era il giro di letture in classe: quella pratica di far leggere a studenti che tendenzialmente vorrebbero essere ovunque tranne che in aula poesie più o meno complesse, senza il chiaro intento di comprendere quello che si sta leggendo, ma con la più legittima volontà di arrivare in fondo alla poesia nel minor tempo possibile. In tutto questo, se ben ricordiamo quanto in età adolescenziale fossimo tutti – sì, tutti – degli esserini poco simpatici, il povero malcapitato che provava a mettere un po’ di pathos, un po’ di buone intenzioni nella lettura, veniva preso in giro dalla maggior parte della classe ed etichettato come quello che voleva solo farsi bello agli occhi del docente.
La poesia alle superiori
Sono passati dieci anni dall’ultima mia lezione di letteratura tra i banchi del liceo. Quel giorno, io portai a scuola la Raccolta universale delle Opere di Giorgio Baffo, e feci leggere al mio professore “L’autore mostra el cazzo a ‘na donna”, “Documenti per ben fottere”, “A una, che si menava la mona”, “La mona, che scavezza ‘l cazzo, è la più bona”, tra l’ovvia ilarità generale dei compagni e delle compagne di classe. La cosa che mi colpì fu che non era il contenuto delle poesie in sé a far divertire – Giorgio Baffo scriveva in dialetto veneziano nel XVIII secolo, per cui per noi, piemontesi di provincia, era un linguaggio ostico, sebbene comprensibile – quanto più il fatto che potessero esistere dei sonetti che affrontassero il tema del sesso in quei termini, con quella semplicità e senza il tatto con il quale nell’immaginario collettivo la scrittura in versi si caratterizza: una sorta di poesia anti-poesia, in cui però il suffisso anti sta solamente a marcare una differenza rispetto a quello che fino a quel momento pensavamo fosse la poesia in generale, e non una selezione proposta dalle antologie scolastiche. Il risultato finale di quel giorno di scuola fu trasformare l’ultima lezione di letteratura in una compilation di soli titoli di poesie di Giorgio Baffo. Lì, involontariamente (del resto volevo soltanto perdere un po’ di tempo e ridere del prof) dimostrai per la prima volta a qualcuno che la poesia è molto più di quello che abbiamo studiato a scuola, e mi si aprì un mondo, perché dalla compagna più studiosa a quello più svogliato, eravamo tutti uniti dalla curiosità e dall’ilarità di quei titoli, di quei concetti, e di quelle descrizioni a tratti comiche di una tematica come il sesso che, dieci anni fa in un qualunque liceo, guai a te se ti azzardi a parlarne.
La poesia performativa
Stacco. Sono passati dieci anni, dicevo, dalla mia ultima lezione di letteratura tra i banchi del liceo. Continuo a leggere e scrivere poesie, e ogni volta che penso di aver decifrato il significato di un componimento è come aver risolto un enigma complicatissimo, roba che Indiana Jones scansati proprio. Partecipo e organizzo serate di poetry slam e spettacoli di poesia performativa da sette anni. Va constato una volta per tutte che la poesia contemporanea è anche performativa. Tuttora, quando durante un poetry slam qualcuno si esibisce con una poesia comica, il pubblico si stupisce di stare ridendo e di starsi divertendo durante una serata di poesia, e questo capita perché la poesia non è noiosa; spesso, a essere noiosi sono i poeti, e ancor di più a essere noiose sono le persone che cercano di veicolare il messaggio di un autore. Il pregio della poesia performativa è quello di aver eliminato la figura dell’intermediario del testo poetico, questo perché ora a ricoprire quel ruolo è l’autore stesso non più solo in sporadiche interviste in bianco e nero, ma anche da un palco, da un marciapiede o da un video sui social network.
Perché la performance è importante?
Per comprendere meglio la necessità sempre maggiore della performance nella poesia, confrontiamo lo stile di lettura di due podcast molto belli e che consiglio a chi legge: In rime sparse di Claudia Crocco, Giulia Martini, Francesca Santucci e Matteo Tasca, e Un verso tira l’altro di Paolo Agrati. Nel primo, chi conduce analizza una raccolta di poesie, la recensisce e ne legge degli stralci: consigliatissimo per scoprire autori nuovi e non. Nel secondo, Agrati racconta la storia di un autore e ne legge una poesia: anche questo consigliatissimo per scoprire curiosità e vedere autori “intoccabili” da un punto di vista differente dal solito. In In rime sparse, però, l’approccio alla lettura è scolastico, appunto come quando eravamo alle superiori. Una lettura, niente di più. In Un verso tira l’altro, invece, il componimento non viene solo letto, ma interpretato in tutte le sue sfumature da un Paolo Agrati dalla voce straordinaria e che con la voce – oltre che con la penna – ci lavora: questo ci fa comprendere meglio la poesia, ci fa entrare nel mondo dell’autore, ci fa rivivere il suo stato emotivo. Al termine della lettura di Agrati, crediamo per un istante di aver capito tutto; una lettura più distaccata e scolastica, invece, dà l’effetto opposto.
In conclusione, le doti interpretative sono ormai essenziali nella divulgazione di un testo poetico, non più destinato a nascere e morire tra le pagine di una silloge, ma dalla più alta ambizione di essere divulgato in trasmissioni, podcast e spettacoli. La poesia non è più solo qualcosa da leggere, ma è anche un brano da ascoltare, una performance da guardare, un gioco collettivo. Del resto, è quello che è sempre successo nell’arte e nel mondo: le cose, semplicemente, cambiano. Perché se da un lato è vero che non ci sono più i poeti di una volta signora mia, è anche vero che se dovessimo fare i puristi della musica dovremmo ancora oggi pompare dalle casse Kyrie eleison e altri canti gregoriani del IV secolo, nella pittura non dovrebbe esistere la profondità e a teatro dovremmo andare soltanto per assistere alle tragedie greche.
L’arte è figlia del tempo in cui viene concepita, e la storia si ripete ma in tempi diversi e lontani tra loro: a cambiare è la forma, non il contenuto, e non possiamo far altro che prenderne atto.
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