Autore: Rosa Riggio

Quanto possono dilatarsi le possibilità della scrittura? In “Così nuda” Barbara Serdakowski va al di là della sua natura più intrinseca, orizzontale, successiva e moltiplica le possibiltà del verso, espandendole. La lingua ci trascina nella verticale lettura opponendosi alla perentoria necessità di essere solo verso, unico orizzonte. Così, sostiamo sospesi sull’orlo di un precipizio, in una lingua ogni volta diversa, sia essa polacca, francese, spagnola, italiana. Un vuoto multiforme ci attende e si somma infine: “In me le lingue sono una, con molte pronunce, con tante sfumature”. Ma qui la lingua opera un altro prodigio: volta le spalle a se stessa. Niente vieta di leggere i versi della Serdakowski procedendo al contrario, dal basso verso l’alto, in una semantica palindroma. Questi, per esempio:

I lay my eggs one by one
Depongo le mie uova uno ad uno

With every moon, for every star
Con ogni luna, per ogni stella

I weave my dreams into my lives
Intreccio i miei sogni nelle mie vite

Words of wonder
Parole di meraviglia

Oppure
Quand l’astre opaque s’enlisera au loin derrière les eaux
Quando l’astro opaco sprofonderà all’orizzonte dietro le acque

Il ne faudra plus attendre longtemps
Non ci sarà più tanto da aspettare

Il tempo fila ma non si spezza

L’aspetto visivo, iconico, apparentemente disorientante, ha una struttura coerente, in cui gli idiomi sono impronte, segni, grafie momentanee ma, infine, tutti aspetti dell’Uno. “Everything is somehow one, once more/Tutto è, non si sa come, di nuovo Uno”.
C’è la necessità di non fermarsi, di ritornare: “La testa girata per la paura”, ma procedendo oltre. Se l’essere è linguaggio, quest’ultimo è straniero a se stesso, perché l’unica identità che ci è data non ci appartiene: “Je voudrais tant te dire/Vorrei tanto dirti/Combien mon être ne m’appartient plus/Quanto il mio essere non mi appartiene più”.
Anche le traduzioni, tutte necessarie perché parte della vita dell’autrice, sono temporanee e parziali. Lei stessa, in un’intervista rilasciata a “Prospektiva”, afferma che “La traduzione, mutevole anch’essa a seconda del pubblico, non è più una semplice conversione linguista ma un perno ruotante al quale si aggrappano le altre lingue sbrindellate”. Il linguaggio ci abita e noi siamo relegati in angolo di mondo solo momentaneamente “nostro”, dove le parole sono “Como los pedazos rotos de la muñeca de porcelana./Come i pezzi rotti della bambola di porcellana./Trying to see in every single piece the whole./Provando a scorgere in ognuno dei singoli pezzi, il tutto.”
Se c’è una “migrazione” (per la sua storia è stata accostata alla letteratura di migranti), questa è sempre all’interno di sé, l’orecchio rivolto all’ascolto di voci “embrioniche come feti nel guscio”. Voce-corpo. “E la gola vuota di parole/[…]Si apre come la bocca di un pesce essiccato al vento.”
I versi della Serdakowski migrano attraverso “L’atempo”, sono di sabbia o di marmo, in esilio perenne, tra voci d’argilla o di fuoco. “Poeta orfana”, “avida” scivola tra parole tentacoli, che ghermiscono il mondo, lei stessa parte di esso: “Scrivo sulle mie guance diafane/Sulle palpebre a tratti chiuse/Sulle mie tue labbra polpose”. Scrittura che precede per attriti, ruvida ed insieme distesa, in un equilibrio precario, si ferma (“Hoy se pararon las ondas del mar./Oggi si sono fermate le onde del mare.”) e poi riprende il cammino (“Domani il tempo ignoto già mi sfugge e poi…/Ancora un altro domani.”). Scriveva, nei Quattro quartetti, T.S. Eliot: “Nel mio principio è la mia fine” e “Nella mia fine è il mio principio”. In Così nuda il Tempo è un interlocutore costante, è ricordo che lascia tracce d’inchiostro, ma anche perdita a cui opporsi. “Or are we all just slowly going away?/ O siamo tutti soltanto allontanadoci pian piano?”. Questo si domanda, tra le altre cose, la Serdakowski nel silenzio della solitudine. Ed il poeta è, secondo la definizione di Musil, colui che più di ogni altro è cosciente della solitudine senza scampo dell’Io.

Rosa Riggio

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