All’improvviso, come un volto noto in mezzo a una folla anonima, ecco i tuoi occhi (nati dall’immenso bisogno di luce che tenti di coprire la notte?) scendere giù fino al mio sesso. La mia ombra si tuffò nell’aura del tuo sguardo, si allungò, oltrepassandomi, fino a perdersi nel buio.

E lei ora era sesso. E lei ora era corpo. E lei ora aveva il petto gonfio che palpitava. I tacchi ai piedi, rossi, dissero il segreto dell’immortalità. E’ perché lui portava in sé la forza dell’avvicinamento, fecero l’amore, completamente nudi, in piena campagna velata di brina; lui le toccò i seni, le baciò i capezzoli, le sfiorò il ventre, le leccò il sesso.
Fino a quando, in un tremare di vetri e brusca frenata: “Capolinea!”, disse dall’alto una voce arcigna.

[Inverno. Notte. Pioggia. Periferia.]

Spostati dalla luce all’ombra, con naturalezza, innocentemente, gli alberi, i fiori, i prati, creati per il mio desiderio. Tutta la loro esistenza non fu che lo sfarfallio su uno schermo. Tranne te. La verità dei tuoi occhi. La realtà lo fa, alle volte. Tentativo estremo di dimostrare se stessa quale suscitatrice di vita.
Eppure, se ora provo ad abbassare le palpebre, tutto ricompare: gli alberi, i fiori, i prati. Io posso a mio piacimento accelerare o rallentare i movimenti dei rami degli alberi al vento, stimolare l’aroma fresco dei fiori. Ma i tuoi occhi no! (Perché veri? Perché t u o i?) si rifiutano, in un atto di riappropriazione (?), di riflettersi dentro il mio schermo.
Verdi. Teneri, Bellissimi. Penetranti. Che mi portarono, in un solo attimo, dall’ombra alla luce. Dalla morte alla vita. E che per questo (sgomitandomi l’ombra), disperatamente, nell’estremo gesto di ricongiunzione a te, io scrivo.

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