Una piccola storia

È come una giornata di vento, fissare una foglia ondeggiare
e intimarle di fermarsi quando il soffio è ancora forte.
Questo stai chiedendo a me.

È come un padre, un buon padre, con il figlio che vive lontano
e un’estate intera in cui non si volta a guardare le stelle.
Questo stai chiedendo alla fede.

È come scrivere tanto e poi dimenticarsi una parola semplice
e poi del legno, in un terreno che ricordo, da far avvampare.
Questo stai chiedendo a una piccola storia.

Poesia senza amore

Che un riflesso di luci dietro a una porta
non mi faccia immaginare nessuno,
forse non è un dramma.
Che una terrazza umida e buia
compensi una perdita, senza narrazioni,
forse è più giusto.
Che un autobus si arresti sotto casa
e io non mi affacci a guardare fuori,
forse è risparmio di tempo.
Che inchiudere gli errori nella propria immagine
germini scelte lucide e sensate,
forse è un’istruzione per la maturità.
Che io giaccia nell’assenza di pensiero associativo,
sia sempre e mai nel perché sono qui?,
forse rende il lavoro più proficuo.
Che io non veda più in ogni bacio il suo asciugarsi,
più in generale, in ogni oggetto un oggetto smarrito,
forse è libertà.
Che non ci sia il grande freddo o il grande caldo,
non si debba buttare i vestiti o cercarne altri,
forse garantisce equilibrio.
Che inizi a chiedermi chi io sia,
non più il cielo nero, tanto quanto lui era me,
forse è salutare.
Che non si possa salire a cavalcioni su uno sguardo,
tessere baracche nelle quali abitare,
avanzare di fianco all’irrealtà,
essere ingenua gallina e predare la scaltra volpe,
pianificare eventuali viaggi all’indietro,
sollecitare le nuvole a raggiungere la montagna
e rimandare alla sera ogni atto di dolore,
forse rende la vita tollerabile.
Che io non sia felice, certo neanche triste,
e scriva lagnose poesie senza amore
forse, forse, forse, non è un dramma.

 
Vincenza

L’assolo di civette snellisce la lama già sottile,
si stringe lo spazio tra un filo d’erba e l’altro.
Una signora anziana sale lentamente tre gradini,
i suoi passi lasciano impronte nell’aria.
Indugia sul pianerottolo,
sotto una fioca lampadina,
dentro la cornice del portico.
E si guarda indietro un istante.
La riesco a ricordare solo piegata dalla sua gobba
di fatiche, mai lamentate;
comprava da me le tagliatelle all’uovo,
qualche detersivo,
un po’ di formaggio;
nei giorni di festa il suo cortile si affollava di auto
e mia madre le vendeva l’arrosto girato.
Il nostro abitare il mondo è abitare delle intercapedini.
Spegne la luce e rientra in casa.

Veduta di campagna con bar

Le macchine procedono a velocità dissonanti davanti al bar,
io riconosco le persone che le guidano.
L’aria assume le tinte gialle del neon.
È uno stato emotivo cui non riesco a adattarmi.
Il Bianchi viene a comprare mezzo chilo di pane
e la pagnotta per Agata alle dieci in punto,
Flavio e il Cioni fanno avanti e indietro in moto
Perpetuo, per Campari e birra “ghiacciata, mi raccomando”.
Vittorio finisce di pranzare prima di mezzogiorno
e viene a prendere caffè e Futura e poi chiede:
“ancora non c’è Bronzino?”, e così via.
Ronzano nel sottofondo i frigoriferi,
tintinna il perno arrugginito della ventola,
dalla cucina si incuneano timbri metallici e aroma unto.
Come affacciato a un fiume, osservo fluire
le battute riciclate di bar in bar dai clienti.
Con cadenza regolare viene urlato il mio nome
e mi riacciuffa questa assurda dimensione.
La mia giornata è una sedia.
S’inabissa nella notte e riemerge identico.
Dio è qui che ha appiccicato la sua gomma da masticare.
Vorrei accadesse qualcosa, anche la più tragica,
per compiacere la mia nevrastenia e far cedere
il chiodo che sorregge questo quadro intollerabile.
Penso a Bucarest, a un fratello che ci abita:
è un’ora più vicino ai sogni.

 
Parco d’inverno

Mi ricordo un parco d’inverno.
L’erba umida.
L’ordine complesso con cui il vento
riordinava il ciarpame,
i sentimenti,
riportandoli nei corpi da dove erano sfuggiti.
Mi ricordo le sei di pomeriggio in un parco d’inverno.
La tenerezza sfilacciata di una coppia,
su una panchina trascina un abbraccio oltre il buio.
Mi ricordo una grossa nuvola grigia correre via
velocissima
da quel parco d’inverno
e un corvo nero che a un certo punto ci sparì dentro.
Mi ricordo una lacrima cadere in un parco d’inverno,
con il buio
e l’erba già umida
nessuno ci ha fatto caso.
Il gelsomino, dicono,
è un fiore che ritorna.

Siena

La notte era morbida sulle pietre di Siena
e l’aria serena,
distesi come due che non si amano,
ma forse.
Quegli occhi lustri colmi di dolcezza
avrei potuto baciare,
se la notte non fosse stata così morbida
e l’aria serena.

 

Nota biografica:

Fabrizio Sani. Sono nato in provincia di Arezzo e vivo a Roma da sei anni. Mi sono laureato in Arti e scienze dello spettacolo alla Sapienza e sto conseguendo la magistrale in Editoria e scrittura nello stesso ateneo. Per le edizioni SuiGeneris ho pubblicato il mio primo libro dal titolo "Si innamoravano tutti di me e io del loro amore". Miei testi saranno inclusi nell'antologia InVerse 2020 (John Cabot University). Recentemente sono risultato tra i vincitori del premio Ossi di Seppia e del premio Alda Merini.

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