Roberto Mele
Ostensione
Il pensiero si sviluppa a partire da una condizione. Una condizione di disagio produrrà verosimilmente pensieri disagevoli per il soggetto: avere una ragione per il dolore è già una benedizione, il più grande provocato è quasi sempre sopportabile, come dire che sarebbe eccessivo ammazzarsi per una ragione precisa. L’harakiri dei samurai, la morte per ragioni etiche, Mishima e il delirio conservatore (La donna che voleva morire, Wakamatsu) o la morte perché non può essere altrimenti (L’amour à mort, Resnais): patti di suicidio che non si fanno rompere, presupposti sbagliati, risibili persino. Il coraggio che si mette nella sopravvivenza è lo stesso che può vincere la crisi di panico dell’innamoramento, il presagio che si fa tremore, l’ineluttabilità del disarmo. La paura che monta di notte come riflesso dell’obbligo di rinuncia all’eternità, la cura messa nella distanza dalle dipendenze si dissolve di fronte ad un’intelligenza immensa – eventualmente incolta, per garantire alla mente un palcoscenico atrocemente più ampio – un rischio incalcolabile, il risveglio nell’incubo che era stato messo da parte nella speranza di rinforzare una realtà da giustificare. Correre incontro al prossimo atto mancato.
Le condizioni non sono mai il risultato di un pensiero, nulla è conseguenza sola e diretta di un pensiero, se non le emozioni semplici. C’è uno spazio tra l’impotenza della volontà e l’indeterminatezza assoluta che è occupato in larga parte dalla paura, da qui in avanti senso di responsabilità. Essere responsabili nella paura equivale a disinnescare un ordigno smettendo di guardarlo. Al fragore dell’esplosione si offrirà poi l’alibi di un deficit di stereognosia: maneggiavo qualcosa che non mi riguardava, nulla è dipeso da me. Non sono responsabile della sussistenza di una condizione ma delle sue conseguenze, non c’è salvezza, andrebbe detto.
L’ossessione dell’accoppiamento è ancora un luogo confortevole, nella misura in cui è una fantasia possibile. Bruciare di passione generica può essere considerato per ragioni di precisione una menzogna, forse bisogna essere molto giovani per indifferenziare la pulsione erotica, o sufficientemente sbronzi. Ad ogni modo, un sesso spensierato è troppo poco appagante, per sensazioni più intense rivolgersi al proprio fornitore ufficiale di sentimenti non corrisposti, il mondo, internet. Una nota metodologica vi informerà che la condizione di un amore impossibile è assimilabile a quella dell’amore non corrisposto. Una condizione che non è certo il risultato di un pensiero.
Ci sarà sempre qualcuno che vi chiederà di mutare una condizione di cui non siete responsabili, facendovene diventare responsabile. La vostra inazione diventerà causa della condizione, è solo una questione di tempo. Pare che la morte sia l’unica condizione immutabile, ma non è da escludere che qualcuno, prima o poi, vi riterrà responsabili di non essere capaci di risorgere. Non è follia, vi si chiederà, in fondo, solo di sfidare l’impossibile, dato che impossibile è sopportare certe condizioni, di cui nessuno, ma proprio nessuno, è responsabile. Al limite della coscienza possono trovarsi luoghi orribili, paradisi infiniti, per la delusione tipica e meritata di chi sopravvaluta le proprie forze, le prove della propria mediocrità. Da una condizione di mediocrità non può svilupparsi alcun pensiero rilevante.
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Più è basso il punto di partenza del ramo discendente di una parabola più l’epilogo sarà tragico. Mia nonna è impazzita nel modo più beffardo, da stupida, dopo un parto, tutti dovevano capire da subito che non mancavano i presupposti perché andasse tutto in vacche. Io però non ho mai pagato per una puttana, un errore di valutazione a cui spero di porre presto rimedio. Ce n’è di molto belle persino tra chi scrive, ma non intendo lusingare nessuna, ho illuso tante brave ragazze da poter ripiegare su una professionista. Io non ho un nome. Ero partito che pensavo solo di dimostrare che il vizio è virtù e mi sono ritrovato ben oltre, ad un passo dai miei limiti. Sarebbe molto dignitoso smettere.
Tra i tanti modi di essere disonesti dire la verità è il più sciocco ma, essendo mia nonna impazzita da stupida, è giusto così.
Devo dire che conosco tre modi diversi per farsi molto male.
Il primo. La luce del sole impiega poco più di otto minuti per giungere sulla terra, un viaggio sufficientemente lungo perché tutte le cose, le informazioni necessarie a prendere decisioni importanti, accadano senza preavviso. Quando i fotoni di luce bianca impattano sul suolo o sulla retina di qualche sprovveduto che, inarcando il collo come un rapace, si lascia colpire dalla radiazione elettromagnetica, è già tutto cambiato. Il sole è troppo lontano per capire.
Il secondo. C’erano due famiglie molto ricche nel mio paese, gli ultimi membri della prima si sono dileguati negli anni ‘60, lasciando appariscenti simulacri, ripetutamente profanati dal tempo e dagli uomini, a memoria di un fallimento plurigenerazionale. L’ultimo membro della seconda, figlio di madre impazzita dopo il parto, è impazzito anche lui e sfortunatamente non ha maturato il senso della dignità: le generazioni precedenti lo ringrazierebbero di continuare a portare da solo il fardello di un fallimento che pare monogenerazionale. La prima famiglia, più dissennata e godereccia, ha dilapidato ciò che era rimasto dopo aver investito tutto nella coltivazione estensiva della sola palma da dattero, per così dire, e una stagione di grandine e punteruoli rossi pionieri ne ha decretato l’opportuna estinzione. La seconda ha perso pezzi di umanità nell’arco di cinquant’anni, particolarmente grave è stato per gli ultimi discendenti veder svanire il cognome. Non mi dilungherò per pudore sui sensi di colpa di una palma da dattero.
Il terzo. Siamo sicuri che sia possibile o necessario dare un nome a tutto questo? Non ci verranno in aiuto né gli psichiatri né grazie al cielo i poeti, i peggiori di tutti. Che si sappia che io sfioro la poesia solo quando eiaculo. Mia nonna è impazzita nel modo più beffardo, da stupida, dopo un parto, dopo il secondo in maniera irreversibile. Diventare ciò che si desiderava possedere.
In tutti e tre i casi non esiste una politica confortevole, non esiste un tempo giusto per smettere o non cominciare. E arriva un momento in cui non esiste proprio nulla, tranne il desiderio di buio e silenzio, una stella di neutroni.
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Gli energumeni erano pronti a portarla via, per il suo bene. In realtà, era per il bene di qualcun altro, che dopo diciotto anni di violenze era allo stremo. Accadde però che si impietosì e accennò a quelli di lasciarla andare. Lei, al solito, non comprese, e chiese offesa la separazione che qualcun altro accolse con sollievo. Era il 1974, l’anno del referendum sul divorzio.
Sai che forse mi hanno fatto anche l’elettroshock? A Milano, prima o dopo il 1974. Vero o falso, le piace pensarlo e credere di aver dimenticato tutto. Vero o falso, non risolse il suo problema alimentare. Abbuffate incontrollate al bar, i soliti sensi di colpa nei confronti della madre affidata per pochi minuti agli energumeni – magari li avesse avuti lei i sensi di colpa, o forse li aveva avuti, all’inizio della vertigine – quel bisogno di autocontrollo, la negazione di sé e del proprio corpo. Un quadro banale, tutto l’armonico male.
Lui a volte non c’era, restava in silenzio per giornate intere, eseguiva movimenti stereotipati e dava risposte incoerenti. Tutti dicevano che era perché quella che doveva essere affidata agli energumeni da bambino gli strappava i quaderni e lo incitava alla violenza verso quella a cui forse hanno fatto l’elettroshock, che però pensava che lui fosse furbo, che fingesse l’impotenza. In certi luoghi non puoi fidarti di nessuno.
Questa è precisamente metà della storia.
A Milano, trent’anni dopo, qualcuno la vide dissolversi perché si fece notte, troppo buio e la mia ombra morì temporaneamente di crepacuore. Ho il privilegio di vedermi negata l’offesa, se glielo ricordo, se sospiro davanti a una foto dell’istante precedente. Nel giro di un paio d’anni mi fu concesso lo stesso sollievo di qualcun altro, la vigliaccheria di chi non riesce neanche a rileggere a voce alta. Poi fu troppa luce e ancora l’ombra si dissolse, fino ad aspettare il termine prolungato dell’eclissi.
Sarò sempre fermo a metà della storia, è una finta progressione, perché l’omissione è un reciproco dell’abbandono disteso su un angolo piatto. Oppure: il futuro non si costruisce sul dolore.
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Non posso che restar sorpreso dalla tua richiesta di leccartela. A pancia in giù o seduta davanti a me, l’unico modo che ho di dimostrare di essere generoso. Voglio che mi fai male, come se non te ne avessi già fatto abbastanza, come se non ti avessi indotto a rinunciare a parti del mio e del tuo corpo, come se non avessi fatto tutto il possibile per trasformarti nella donna che piange. Quando mancano gli argomenti, avanzano le parole, e viceversa. Quando invece le parole sono nel numero esatto le menzogne restano nell’angolo e tu risvegli i miei sensi intorpiditi, posso finalmente vergognarmi del mio silenzio. Perché mai dovrebbe essere necessario riassumere ciò che abbiamo amato, come l’effusione dei grandi addii, in qualcosa di indimenticabilmente bello, cos’è questa perversione per i surrogati?
A cosa servono tombe
suadenti urne
scheletri sensuali cadaveri
attraenti?
Parlo coi morti,
dio non si sarebbe prestato.
Senza espiazione la fine,
un raschiamento.
Che brutto suono, hai voglia a rileggere a voce alta, migliorarla la miglioro, ma poi? Non posso che restare sorpreso dalla tua richiesta di sollevarti le gambe e spingere più forte. Dopo i venticinque anni alle donne succede qualcosa, come se non succedesse sempre qualcosa a chiunque ad ogni età, e non è che con una di venti spingerei meno forte, tutt’altro, sarebbe un ottimo modo per mettere subito in chiaro come andranno le cose. In ogni caso, il ritmo conta più a letto che in poesia perché tutto conta più a letto che in poesia. Non ci sarebbe poesia senza letto, avete mai letto le poesie di una vergine? Chi scopa le vergini è destinato a migliorare la letteratura.
Pare che ci sia un rapporto tra l’occhio, il sesso e la castrazione, anche simbolica. Ho scelto come simbolo un occhio senza sapere tutto questo, la castrazione, una fantasia rara: soprattutto, è cosa ben diversa e meno auspicabile dell’evirazione. Il problema non è essere uomini, ma essere quei particolari uomini, con particolarissimi cazzi, curati, devoti, accuditi, asta del metronomo che voglio che spingi più forte. E non sarà il mio, sarà quello di un altro che ignaro non spingerà abbastanza forte, i sentimenti di indifferenza ed eccitazione possono susseguirsi imprevedibilmente, è un guaio se nelle previsioni sono più bravo che a letto. C’è qualcosa di ridicolo nella competizione per uno strofinio di mucose, di moderno in una condivisione più ampia delle superfici di contatto, di eterno nelle lingue a pagamento. La verità è che adesso attendo con ansia lo schianto o il colpo di reni, un colpo qualunque, un corpo qualunque, dato da chiunque, l’idea di un imprevisto gemito strozzato in gola: l’universo non lascerà che mi accontenti di sospettarlo, sappiamo tutti come continuerà a finire, si salverà chi non è, nel male, onnipotente. La verità è che è terminata l’attesa.
Non posso che restar sorpreso da ogni richiesta, mentre certe obiezioni mi lasciano indifferente, l’unico modo che ho di dimostrare che dimentico.
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Ultimo giorno del 1987, ora di cena, lui si veste in quel modo che giudichiamo ridicolo, anche la smentita rettitudine della cravatta è banale, il suo piano diabolico. Vado a prendere uno spumante, la donna a cui forse hanno fatto l’elettroshock piange spesso il sospetto, ma protegge la sua schiavitù, non cerca soccorso, non rompe il quadretto. Lo aspetta, come lo avrebbe aspettato per altri vent’anni, oltrepassa la mezzanotte. Volevo farti gli auguri, quasi in orario, mi hanno invitato, non potevo rifiutare, sono da quel conoscente dal nome ritmato a cui tu non oseresti mai rivolgere la parola, come non osi rivolgere la parola a nessuno, continua a sentirti troppo brutta, pianifica quell’inutile rinoplastica e fatti detestare, sono da una donna più bella e meno noiosa di te, crepa, oppure parole dolci, rassicuranti, è irrilevante. La rabbia di lei dura poche ore, spinge il divano contro il portone, uno sforzo fisico, l’ingenua rappresentazione di una rivolta, alle tre del mattino lo lascia rientrare. Capodanno d’oblio.
La centralità della masturbazione in certe storie: tutte quelle emozioni disregolate, l’intelligenza disciolta nella depravazione: non mi avranno, non così, non dopo l’amore. Piangete il mio gelo, tremate ai miei ordini, succhiate altri peni, potrei non stancarmi mai di una certa violenza, potrei impararla e disimparare ancora a vivere. Sarebbe formalmente corretto riuscire a scontare un secondo ergastolo travestito da dominatore, un gioco che mi confonde, mentre per chi vive lungo i bordi la promiscuità è un dettaglio che non fa male, sarebbe stato perfetto.
Non perderti è una lotta
contro la barbarie del tempo
crescente.
Sul campo di battaglia
gli alleati ci combattono.
Piangete il mio gelo,
tremate ai miei ordini,
succhiate altri peni.
Pochi giorni prima di una festa comandata l’amore nasce oppure entra in coma, politraumatizzato, l’anima schiantata su quel seno che non sono stato né il primo né l’ultimo a toccare, la mente che finalmente si rompe, fuoriesce l’essudato purulento, l’infezione contratta durante un amore precedente, rotto nel piacere che avrebbe dovuto risarcirmi, la frustrazione di un desiderio appagato troppo o troppo poco, mi avresti tenuto in pugno se solo. Voglio che mi fai male, recita la parte, la vera forza della pièce è nel testo, non nell’interpretazione, dunque entro da dove senti più dolore, voglio sentirti gridare e mi sovviene una rivelazione e capisco tutto quello che non avrei dovuto capire, la parete è scoscesa, ma i soliti appigli razionali mi salveranno.
Ultimo giorno del 2012, ora di cena, gli occhi di un pubblico ignaro ammirano le gambe della mia ombra, mentre i miei ineluttabilmente si perdono. Non ho più un piano. Il misterioso richiamo delle farfalle Monarca, raccontato con grazia da un’altra bella compiuta che dice per caso la verità su di me, qualche galanteria fruttuosa, un paio di carezze equilibrate. Capodanno d’oblio.
Il commiato finale di una storia che disprezza i nostri sacrifici, l’invereconda separazione, l’amore irregolare e quello regolarizzato, pochi sereni accoppiamenti da qui – o da lei – all’eternità.
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Gige, mi sembra che tu non mi creda quando ti parlo della bellezza di mia moglie: per gli uomini, infatti, le orecchie sono più infide degli occhi; fa’ dunque in modo di vederla nuda. (Erodoto, Storie)
Una bella e giovanissima parrucchiera col suo rude accompagnatore e prima una studentessa col suo delicato accompagnatore. Mossi anche loro dal proprio corpo più che da quello altrui, benché la regina avesse mostrato in dettaglio la scheda tecnica delle sue grazie, di spalle soprattutto, in pose resurrettive. Mai visto culo più bello di quello della regina, gli anni le fanno bene, lo dicono tutti. Quanti libri, che di certo non si interrogano sulla dignità dei corpi, pur tradendo talvolta aspirazioni penetrative. Non l’avevo mai visto con un’altra, ma anche lui non mi hai mai vista con un altro. Vogliono sfidarci: chi vince? Vinciamo noi, aumenta la pressione del tuo corpo sul mio, bella e giovanissima parrucchiera bionda, ché occupo sempre meno spazio e dubito di esistere, non liberarlo né liberati dal tuo squisito accento piemontese. Ti piace anche lei, lo so, forse più lei, sbavi nel piatto e tra le sue gambe, ma ora siamo in tre a celebrarti e io sono il più motivato e lieto di averlo confessato in tempo. La bella e giovanissima parrucchiera ha ruotato la clessidra con una scusa banale, sapeva che la regina sarebbe stata omaggiata con un orgasmo che portava il suo nome, ora ne è fiera. Il rude accompagnatore della bella e giovanissima parrucchiera cercava il salvacondotto dell’autoreggente e pratiche cremose, ma è rimasto fuori dai giochi, in fondo: non è colpa sua, troppi turni di notte, troppa fabbrica, troppi licenziamenti collettivi e contratti a termine, le disparità sociali ti colpiscono fin nel cuore dell’orgia, dato che il delicato accompagnatore ha ricevuto invece un premio dalla bocca della regina, forse per come ha consolato la sua sensibile studentessa. Ma io non ero sempre presente e ho sorriso in ritardo.
Era l’amore del nonno, lo sapevi? Lo sapevo. Non era particolarmente bella, negli anni cinquanta lui sfiorò lei e lo scandalo. Grande amministratrice, alla sera faceva i conti con quelli della pompa di benzina, immagino li fregasse sempre. Niente figli, ne trattenne uno di quelli del fratello, che aveva sposato la sorella del marito in un accoppiamento incrociato, finalizzato essenzialmente alla salvaguardia dei patrimoni. L’ultracentenaria sosteneva che lui l’avesse amata in gran segreto per tutta la vita, una pratica e insufficiente giustificazione per il suo dongiovannismo impenitente. Era l’amore del nonno, quello che lui aveva assemblato prendendo un pezzetto da ogni donna che non gliela ricordava e grazie al quale era sopravvissuto. Non era particolarmente bella, io la ricordo con quell’aria severissima, da istitutrice ottocentesca, e vestita sempre di nero, non saprei dire occasionato da quale lutto, con i capelli molto corti, o forse raccolti. Io non ero presente e ho sorriso in ritardo.
Io sono un punto debole che non è possibile dimenticare, neanche nel più elegante sexy shop di Trieste – un tempo fu Venezia – dove ti insegnano a spalancare la bocca o frenare le urla di dolore, a subire lo speculum o a ridere delle peripezie anali degli uomini, torturare polsi, caviglie e capezzoli, lacerare pelle e carni, legata alla croce di sant’Andrea, eventualmente insaccata nel lattice, sciocchezze rispetto a quanto già visto, mentre persino il dressage è un gioco di dominazione e questa volta l’umiliazione sarà solo per finta. Splendide le mani, meraviglioso il movimento con cui incroci le gambe, piegata in avanti: quanto ti costa questo spettacolo? Molto meno di tutto il resto. Continua, allora, continua, cammina con me lungo le rive, lascia che mi lamenti di non aver indossato occhiali da sole. Piangi per la bora ma continua, oltrepassa l’arco, scatta un’altra fotografia. Continua, piazza Unità è bella anche di giorno, puoi fermarti per un caffè, ma continua, fuori è la coda per averti, non deluderai nessuno e, non temere, potrai sempre sciogliere la tensione, sorridendo dell’ennesima opulenta corona di glande, alla mia doverosa presenza.
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Si arrabbiava facilmente. Quando accadeva, si incupiva di colpo e fuggiva via, era la migliore amica della regina. Tutti credevamo che cercasse dei pretesti, solo in pochi casi li abbiamo giudicati sufficienti. Quando la regina le sottrasse l’uomo della sua vita, ad esempio, con l’aggravante di averlo fatto con leggerezza, perché si annoiava: un’ottima ragione per non rivolgerle più la parola per un paio d’anni. Poi, immancabile, il ritorno di fiamma, condito da qualche confessione, baci e sfioramenti, per lo più sotto l’effetto dell’alcol, seduti su una panchina, nel bel mezzo di una piazza di una città barocca, e un invito gentilmente declinato a casa del vecchio astrologo nudista, che me l’avrebbe volentieri ceduta in cambio di una scopata con la regina.
Alle prime esperienze. Com’è andata? Molta adrenalina, ma proprio non c’eravamo con la testa. Alle prime armi ma non sprovveduti, o almeno abbiamo provveduto con poco ritardo. La bisessualità femminile è una storia completamente diversa, che discuteremo nelle sedi competenti. Visto? Reitera. – Converrete che è impossibile che Shakespeare avesse potuto maturare una cultura giuridica tanto vasta semplicemente respirando l’aria dei tribunali. Oppure l’aveva, ma allora non avrebbe avuto il tempo di scrivere – Talvolta però il corpo si inceppa, si ferma sull’uscio, le spalle contratte, per colpa delle bastonate, dell’estate o dell’autunno, della cronica mancata somministrazione di benzodiazepine o di una barriera ematoencefalica troppo efficiente.
Una volta qualcuno le versò addosso una bevanda gassata caramellata, lei scomparve mentre la nazionale perdeva ai rigori un quarto di finale dei mondiali, pochi giorni prima che decidessi di appropriarmi della regina. Trema ancora la traversa su quel tiro di Di Biagio, per la terza volta consecutiva siamo fuori ai rigori, e tremavano le mie tempie, in risonanza. Visto? Reitera.
In lungo e in largo per la marina con i cinquantini sflangiati per inseguire lei che scorticava ogni pudore residuo, aggiungendo ogni volta un nuovo dettaglio, un trucco diverso, un movimento suadente delle braccia, una battuta brillante, uno sguardo predatorio. Si fece quasi bella, alla fine, dopo che aveva simulato un paio di malori e un centinaio di orgasmi, dopo che aveva umiliato i genitori dallo psicologo – lo raccontava ridendo – e di nuovo quando lessero sul suo sciocco diario di tutti quelli che l’avevano posseduta dal giorno in cui la regina le aveva sottratto l’uomo della sua vita. Si fece ingravidare durante un fugace rapporto sul muretto del litorale da un brasiliano che aveva lasciato tre figli a Salvador e chiese consiglio all’astrologo, convinto che il padre fossi io, prima di abortire. Era perspicace, a tratti, l’astrologo, pare che si sia accorto del concepimento avvertendo un sapore più acido del solito, una notte, tra le sue gambe, conoscere è giudicare.
Per alzarsi, al mattino, ci voleva coraggio come per gettarsi dalla finestra. Con la differenza che dopo lo schianto tutti abbiamo potuto guardarci negli occhi. I cani che hanno dato la caccia a me sono stati sempre buonissimi. Ma per inutile amor di verità anche la follia andrebbe messa in piazza e non solo la sublimazione del nostro esibizionismo cui regaliamo la dignità volgare e posticcia del bisogno di esser visti. Nessuno poté salvarla dai luoghi in cui era precipitata, tribunali inclusi: fu la salvezza per il resto dell’universo e una sorta di benedizione per lei. Il folle è disonesto se cerca l’assoluzione, la questione morale non lo riguarda. Si può impazzire una volta sola, aspetti un’ora ed è già venuta – quasi si trattasse di capacità divinatorie – resti in attesa della vergogna, è andata così, molti anni fa e non importa, non importa, davvero.
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Non posso fermarmi più a lungo, quando lui andava via, restava fuori solo per una notte.
Avevo bisogno di ricalcare i tuoi passi. Un uomo, un treno, un incontro, sesso sfrenato con la minaccia sottaciuta dell’amore, la promessa di un ritorno e poi ancora, una seconda volta: la regina ha trovato il suo Gige, il bellissimo logico incolto, così presto, in un modo così sciocco. I miei atti sono sempre puri. Sarà, ma il tempo si sfrangia nella trama reticolare degli eventi e delle calze che sgorgano da una minigonna di pelle, mentre riconquista la capacità di sorprendermi. Non per punire ma per dimostrare che, per essere normale, in nome di un’autosomministrata terapia comportamentale. Gli ingranaggi dell’universo saltano per tornare ad una configurazione termodinamicamente favorita. Passo in rassegna l’interminabile serie di immagini pornografiche che mi fornisce, sorrido di come impara a scomporre l’amore o una delle sue forme in violenza e tenerezza. Com’è essere posseduta da due uomini? Quasi invertiamo le parti, la verità ci sta liberando in un modo imprevisto, ma la regina è più intelligente di me, il senso di colpa e l’angoscia che si infiltra nei piccoli gesti quotidiani sono cancellati dagli sforzi della mia mente di tramutare il dolore: avevo bisogno di ricalcare i suoi passi.
Io sono la Puttana Santa. Grida mentre la prende forte – sono riuscita a non pensare sempre a te – le chiedo di coinvolgermi, poi forse cambio idea. Sono bravo nelle cose pratiche, a riparare gli ombrelli o con la dichiarazione dei redditi. Avrei persino potuto fare il sindacalista, non fosse stato per quella brutta abitudine di tenermi a distanza da ciò che mi scalda. Una lista un po’ nazista mi toglie per un attimo il fiato, forse più della notte che la regina ha replicato, percepisco di meritare una penitenza – ne avrò dunque per più di un anno – nel turbinante ciclo espiazione-colpa il pervertito cattolico ha piacere dalla prima, quello postmoderno dalla seconda. E ho memoria di unghie come scarabei iridescenti, di traiettorie di giochi d’acqua, di fughe improvvise come per intrappolarsi, dell’uso dolce e insensato di alcuni aggettivi, di tanta lussuosa e proverbiale intelligenza, quella che puoi permetterti di non esibire, di fiamme indomabili. Delle botte di un mentecatto, ennesimo relitto neodecadente, dei capricci di un integratissimo alternativo, fetida spirale sinistrorsa, agglomerato urbano di umanità non più esecrabili delle nostre, dettagli marginali che rimpiccioliscono Roma.
Antonio Moresco scrive la prefazione del libro della mia vicina di casa, quella che quando attraversava la strada ci faceva smettere di giocare a pallone da quanto era bella, dice che è nato un poeta: nella mia terra, a quanto pare, si parla una lingua che non so riprodurre, ma che capisco perfettamente. Ecco perché tutto il resto.
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Una ragazza poco onesta lamentò il fatto che non mi fossi abbandonato ad effusioni con lei, al cinema. Il film era uno sciocco cartone animato che però citava il finale di Citizen Kane e giocava con la teoria della relatività oppure L’année dérnière à Marienbad, che mi affascinava a vent’anni, prima che rimpiazzassi con gran guadagno morale gli intellettualismi con la pornografia. La ragazza poco onesta era a quel tempo molto bella ai miei occhi e non ho ragione di credere che non lo sarebbe anche oggi, un trionfo di femminilità, occhi blu e buoni profumi. La ragazza poco onestamente lamentò di non aver sentito in quell’occasione la mia mano tra le sue cosce, le mie dita nel suo sesso e via dicendo. Non era così bello fare l’amore con lei, il film era uno sciocco cartone animato con animali antropomorfi.
La madre di quella a cui forse hanno fatto l’elettroshock, che per pietà non fu portata via dagli energumeni, pranzava sempre da sola. Aveva però l’abitudine di apparecchiare per due, aggiungendo di fronte al suo un triste piatto vuoto, senza sottopiatto né posate ai lati o bicchieri all’incrocio tra la tangente il piatto e la proiezione del tovagliolo. Non sopportava che la figlia venisse su così bella e florida e desiderabile: la indusse a credere che il padre l’accarezzava con lascivia. Non era comunque questo il motivo per cui la picchiava. Andò ad assistere al suo esame di maturità – mentre la interrogavano, non ricordava se le avessero davvero fatto l’elettroshock – non potendo picchiarla, rimase in silenzio a leggere il giornale.
La provincia milanese è meno prevedibile della metropoli, i motel contenitori impressionanti, quattro ore di sesso a buon mercato. Oppure tre di rock mediocre, prima che i dannati riprendano a battere le strade, occupando locali sfocati. Nessuno conosce per intero la propria storia, ma ora dimmi una cosa stupida, ho l’affanno, dimmi una cosa stupida – una cosa bella è avere la cortesia squisita di non dimenticare mai a chi ci rivolgiamo, ed è inutile pretendere di non rivolgersi a nessuno, perché riponiamo aspettative anche nel lettore anonimo e sconosciuto, una delle tante ipocrisie letterarie – La verità potrebbe farci ridere a crepapelle, specie se ogni decisione è stata presa, ma comprendere questo è pericoloso.
Infine, donne violente colte da infarto, che hanno corso il rischio di essere portate via da energumeni, cinica pornografia prêt-à-porter, questa sì, per chi ha perso tutto. Ubriacarsi con sconosciuti, frequentare graziosi motel. Gente che scambia la moglie, diventare una vecchia star del cinema senza essere stato una star del cinema
o della letteratura.
Gente di cui non ho mai dimenticato il compleanno.
Donne violente colte da infarto, che non odieremo abbastanza anche se non si sono perse niente, strepitando inutilmente in terapia intensiva coronarica.
Donne violente colte da infarto, che ignorano tutto, a partire da quanto dichiarato dalle insegnanti nel febbraio del 1988:
Ha mostrato qualche difficoltà nell’inserirsi nel gruppo classe, probabilmente a causa del fatto che non ha avuto lunghe esperienze prescolari ed è vissuto più che altro in compagnia di adulti. È arrivato a scuola con molte conoscenze in ogni campo poiché già leggeva autonomamente. Possiede ottime doti, una grande autonomia e una certa dose di anticonformismo, ma sembra non molto interessato alle attività scolastiche; il gioco e il rapporto continuo con i compagni rimangono il fulcro della sua permanenza nella scuola. Ultimamente, però, ha manifestato il desiderio di essere gratificato e durante l’esecuzione dei compiti, che svolge con facilità e rapidità, cerca di impegnarsi un po’ di più.
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L’epilogo più scontato, una veglia in tono minore, un funerale coerente. Piove sulla bara, chiara e semplice, più adatta per una giovane, mentre i muratori aprono il loculo senza delicatezza. Si staccano gli intonaci della cappella a causa dell’acqua risalita per capillarità. Non è bella come quella più antica, patrizia, in parte sotterranea, dove il legno è marcito e le radici hanno avvolto corpi freddi da più di quarant’anni, gli stessi che la donna a cui forse hanno fatto l’elettroshock ha atteso prima di piangere di nuovo per causa sua, per pietà. L’ho perdonata, prima di aver rivisto per l’ultima volta tutte le sue cose in perfetto ordine in una casa più modesta del necessario, separatori nei cassetti, il pianoforte, giocattoli inspiegabili. Perdonata la violenza, l’assenza, il male che la trasformava in male.
Una ragazza trema su una panchina nel parco della casa dei pazzi, un uomo che ha qualche potere su di lei le tiene il collo mentre lei lo supplica di non andarsene. Respira piano, va tutto bene, respira piano.
Nota biografica:
Nato a Taranto nel 1981. Sono per un quarto bavarese, ho trascorso infanzia e adolescenza in Salento. Mi sono trasferito a Milano nel 2000 per intraprendere studi scientifici. Mi sono occupato di cinema e neuroscienze per un certo numero di anni, scrivendo sotto pseudonimo dal 2004 al 2014 su varie piattaforme, a partire da Splinder, dove ero un sacerdote libertario. Da poco sono tornato ad occuparmi di scienza e ho perso l'anonimato.
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