Recensioni
European feeling nella storia del jazz (parte 1)
a cura di Guido Michelone
Straordinariamente fecondo
Il jazz in Europa, da ormai mezzo secolo, sta vivendo un periodo straordinariamente fecondo dal punto di vista creativo, al punto da poter disquisire di european feeling (alla lettera ‘sensazione europea’), così come si può parlare di bebop feeling, cool feeling, blues feeling, eccetera. Tuttavia la documentazione non solo sull’european feeling, ma sulla storia del jazz in Europa – eccezion fatte per la lodevole Eurojazzland. Jazz and its European Sources, Dynamics and Contexts di Luca Cerchiari, Laurent Cugny, Franz Kerschbamer e in particolare per la monumentale ricerca curata, nel 2017, dall’italiano Francesco Martinelli in The History of European Jazz: The Music, Musicians and Audience in Context, che però è una raccolta delle storie dei singoli stati da parte di specialisti locali – risulta scarsa, lacunosa e frammentaria, nonostante la vocazione dell’european feeling a non chiudersi dentro i patrii confini, per tendere a risultare cosmopolita, internazionalista, aperto al dialogo con il jazz degli altri Continenti, a partire da quello Nordamericano, da cui nasce pochi anni dopo la genesi dell’hot neworlinese.
Occorre perciò cercare di tracciare una sorta di identikit dell’european feeling, onde poter rendere conto di una magnifica realtà socioculturale in perenne metamorfosi, che soprattutto risulta in grado sia di leggere e rileggere il passato (afroamericano, nord, centro, sudamericano, persino africano e asiatico, oltre il proprio) sia di confrontarsi con un presente mondiale e globalizzato, offrendo addirittura un’idea plausibilissima di jazz futuro, che non rinnega nessuna tradizione finora abbracciata da oltre un mezzo secolo di musica registrata. L’european feeling può venire osservato, analizzato, giudicato sotto diverse prospettive, come si deduce dalle due pubblicazioni sopraccitate (a cui si può aggiungere Jazz in Europa. Forme-dischi-identità scritto dall’autore nel 2016). Analizzando però la questione trasversalmente, si avverte senza dubbio un pressante insistenza di singoli contesti jazzistici nazionali (per i quali si potrebbe parlare di italian feeling, french feeling, british feeling, german feeling, eccetera) ma allo stesso si sente, con maggior urgenza, la coesistenza positivissima di un european feeling, che va da Gibilterra alla Lapponia, dal Bosforo all’Islanda, inoltrandosi dalle coste mediterranee verso quell’insieme di pianure, colline, montagne, città e borghi che tutti chiamano Europa, al di là di un’Unione ancora poco vissuta dai cittadini medesimi (manca ad esempio una Carta del Jazz Europeo).
Sul Vecchio Continente da circa un secolo esiste una cultura del jazz che fa sì che la musica afroamericana venga trattata con grandissimo rispetto (assai maggiore di quello riservatole negli Stati Uniti fino a pochi anni fa). E anche per quanto concerne l’european feeling del musicista si sta manifestando ormai da alcuni decennio un alto livello di esperienza musicale diretta e ramificata in molteplici weltanschauung. In tal senso l’european feeling non teme, anzi esige, da sempre, uno scambio o un confronto ravvicinato (e a distanza) con la ‘madre patria’ del jazz, quegli Stati Uniti d’America che, comunque, obiettivamente, dal ragtime al post-free, continuano a essere mattatori nel lanciare jazzmen, ovvero gruppi, solisti, orchestre, cantanti, produttori, manager, come pure album, eventi, festival, club, riviste, web-TV, etichette discografiche, in quantità superiori al resto del Mondo. C’è tuttavia un european feeling che, fin dagli anni Venti, lavora duramente nel promuovere o elevare il jazz a ‘forma d’arte’ senza troppo assecondare l’innocuo divertimento, risultante ancora vittorioso in Nord America, dove talvolta l’idea del jazz rimane arroccata sia allo show business sia alla musica leggera.
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