European feeling nella storia del jazz (parte 3)

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Le lezioni di Gaslini

Oggi, mezzo secolo dopo le lezioni di Gaslini e l’European Jazz Federation polacca, il Vecchio Continente con european feeling, nella propria eterogeneità creativa, numericamente surclassa il Nuovo Mondo, se ci si mette a conteggiare gli stili – nel senso gasliniano di scuole, correnti, tendenze – che il jazz dal Polo Nord alle Colonne d’Ercole, sa inventare, costruire, espandere con maggior o minori dialettica, a seconda dei casi, rispetto alle musiche improvvisate americane, dove anche la parola jazz, una tantum, viene messa all’indice o in discussione: ad esempio in questo XXI secolo alcuni hard bopper preferiscono usare la sigla BAM (Black American Music) per connotare il proprio sound, stilisticamente erede comunque di Art Blakey, Clifford Brown, Horace Silver, Sonny Rollins, Hank Mobley, eccetera.

A partire grosso modo dal dopoguerra, quando il jazz circola liberamente in Europa (salvo all’Est o nei regimi di destra) si discute, per anni, persino accanitamente se l’european feeling giusto sia quello del jazzman che emula gli stili statunitensi, bianchi o neri, a seconda dei gusti: all’epoca si discute soprattutto di bebop, cool, dixieland revival e progressive kentoniano; e per decenni la critica europea – quella americana ignora persino l’esistenza di un jazz europeo e di un european feeling – dibatte pure a lungo la presunta originalità del jazz suonato da francesi, italiani, britannici, tedeschi, polacchi, belgi, scandinavi sulla base dell’avvicinarsi o allontanarsi dagli stili americani.

Giornalisti e studiosi verso il jazz europeo, allora come oggi, forse sorvolano sulla possibilità di un genuino european feeling, rimuovendo il fatto che siano musica e musicisti, ben oltre lambiccate teorie, a dover affermare le valenze tipiche del jazz in quanto tale: non tanto lo swing interiore o il senso bluesy, quanto piuttosto la ricerca costante, lo spirito collettivo, il gioco democratico, l’equilibrio scrittura/improvvisazione, il coordinamento ritmo/melodia/timbro, il rapporto fra avanguardia e tradizione, l’assorbimento di una cultura sonora che unisca passato, presente, futuro. In tal senso l’european feeling s’avvale ovunque di un’ispirazione verace, mediante una versatilità impressionante di situazioni inventive marcate, in un arco spazio-temporale estesissimo (da riconsiderare per cent’anni di storia), rispetto alle conoscenze di certa critica ‘ferma’ alle ultime novità, su cui s’arrovella in inutili panegirici.

Il confronto fra la storia del jazz Nord America e quella del jazz europeo – forse in questo libro riconducibile al senso di un afroamerican feeling e di uno appunto european – sul piano quantitativo risulta favorevole a quest’ultimo, numericamente parlando, soprattutto a partire dalla perenne espansione dal 1950 a oggi. Tutti infatti sanno che il jazz negli Stati Uniti, dal ragtime in poi, si muove in avanti – per circa un secolo – lungo una decina di coordinate in progress: sono, in ordine più o meno cronologico i blues, hot, swing, bebop, cool, hard bop, free, latin, soul, pop-jazz, rock-jazz, ethno-jazz, rap-jazz di cui si avvale il mondo d’oggi (e di ieri).


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