Approfondimenti
European feeling nella storia del jazz (parte 4)
Sfatando il mito negativo
Questi jazz feeling dall’America giungono quasi subito in Europa, sfatando il mito negativo (purtroppo ancora persistente) del presunto ritardo nei confronti del sound della Madre Patria; e, come detto all’inizio, nell’arco di un decennio, attorno al 1935, il jazz francese, con lo swing gitan di Django Reinhardt e Stéphane Grappelli, riesce addirittura a sviluppare una forma autonoma, ossia un european feeling ante litteram, benché capiti poi, durante i ‘favolosi’ anni Sessanta che in diversi Paesi – senza conteggiare i contesti precipuamente nazionali, ragion per cui bisognerebbe ogni volta discutere ad esempio di italian jazz, french jazz, soviet jazz, british jazz, german jazz, nordic jazz, eccetera – sopraggiunga un ulteriore european feeling, che ‘disturbi’ gli archetipi, i linguaggi, le fisionomie, le caratteristiche di un jazz americano coevo e precedente. E in tal senso l’european feeling riguarda un musicista impegnato sia in inedite ricerche sia in linea con l’esistente, che evita le logore polemiche dell’immediato dopoguerra, pur alzando toni spesso oltranzisti, lavorando (sovente accanto agli stessi americani) nel pacifico rispetto delle tradizioni più o meno contemporanee.
L’identikit dell’european feeling trascende perciò un discorso di stili, essendosi plasmato grazie ai contributi autoriali dei singoli musicisti di tante nazioni: precursori in tal senso vanno considerati via via, nell’arco di venti-trent’anni, ad esempio Gorni Kramer (Italia), Tete Montoliu (Catalogna), Jutta Hipp (Germania), Friedrich Gulda, (Austria), Martial Solal e André Hodeir (Francia), George Shearing e Lonnie Donegan (Gran Bretagna), Lars Gullin e Jan Johansson (Svezia). E non va nemmeno scordato il contributo che i musicisti dotti novecenteschi forniscono alla nascita di un european feeling firmando partiture ‘alla maniera del jazz’ o restando positivamente sedotti e influenzati dai ‘ritmi negri’ in opere spesso di ampio respiro (o anche solo per un breve pezzo): i nomi di Debussy, Krenek, Weill, Stravinskj, Ravel, Shostakovic, Honegger, Blacher, Hindemith, Milhaud, Prokofiev, Martinu, Schulhoff, Lambert sono noti a tutti, ai quali occorrerebbe aggiungere quelli della neoavanguardia postbellica (Schaeffner, Berio, Stockhausen, Kagel, Boulez, Penderecki, Henze) o addirittura della precedente dodecafonia (Schönberg e Webern in particolare) per l’influenza sugli european feeling più radicali: non a caso alcuni jazzmen, da Michel Portal agli Swingle Singers, verranno chiamati a eseguire alcune opere di questi stessi autori.
Il clamore suscitato dai musicisti classici innamorati del nuovo sound d’Oltreoceano, spingerà persino gli stessi compositori statunitensi – di solito restii alle contaminazioni – a prendere in seria considerazione quanto fino allora espresso dal ragtime, dall’hot, dal boogie, dallo swing: negli Stati Uniti degli anni Venti (Antheil, Copland, Gershwin), Trenta (Gould, Still), Quaranta (Bernstein), Cinquanta (Arnold, Babbit, Piston) si cercherà di trasferire sul pentagramma l’humus, il feeling, il cuore del jazz e in genere dell’improvvisazione afroamericana, sfornando ibridi assolutamente geniali, quasi ad anticipare sia la third stream music di Gunther Schuller sia i lavori degli european feeling.
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