European feeling nella storia del jazz (parte 6)

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Astigmatic

Il nuovo european feeling è per il jazz da Ovest a Est, per circa un decennio, una ‘lotta continua’ al sistema e al potere, che, quale conseguenza inversa, formerà altre più giovani generazioni che, a loro volta, garantiranno l’ennesimo ritorno all’ordine formale (sostanzialmente il riavvicinamento all’hard bop afroamericano) attivo, per molti versi, ancora ai nostri giorni; ciò che invece differenzia l’european feeling attuale da quello sessantottino è oggi solo una maggior consapevolezza sulla raggiunta poliedrica identità del jazz europeo medesimo. Ad esempio in Francia Jacques Coursil, Colette Magny, François Tusques, Barney Wilen, il citato Portal, in Italia Gaetano Liguori, Guido Mazzon, Mario Schiamno, Enrico Intra e soprattutto Gaslini, in Inghilterra il gruppo Iskra 1903e il sudafricano Chris McGregor, in Olanda Wilem Breuker, Misja Mengelberg, Han Bennik, in Germania Peter Brötzmann, Wolfgang Dauner Alex Von Schlippenbach agitano, chi più chi meno, il proprio european feeling sessantottino (e internazionalista, terzomondista), arrivando puri e indenni sino al 2021.

Infine, per meglio comprendere le dinamiche della storia in dialettica con l’european feeling alle prese con un jazz identitario si può dividere quindi l’iter cronologico del sound continentale in quattro tappe principali: dal 1919 al 1949 l’european feeling vive una prima ‘età del jazz’ caratterizzata da conoscenza e assorbimento di una musica (nordamericana) giovane, nuova, vista con sospetto in patria, ma salutata entusiasticamente da gruppi di musicisti francesi, tedeschi, italiani, scandinavi, eccetera, intenzionati a farla propria. Dal 1950 al 1965 l’european feeling , deciso a collaborare, oltre i confini, senza ancora l’idea collettiva di un jazz identitario, tenta a fatica di ritagliarsi uno spazio sui generis da condividere con tutti (americani compresi, ancora molto amati). Dal 1966 al 1979 le ‘contestazioni generali’ simbolicamente azzerano quanto fatto sino ad allora con european feeling, inventando quindi una musica spontanea all’insegna dell’immaginazione (sonora) al potere (artistico). Dal 1980 a oggi (2021) infine esiste un modus vivendi che affronta l’universo sempre più globalizzato del jazz contemporaneo, mediante infinte prospettive nel guardare sia davanti sia dietro la storia della musica.

Per concludere, a indicare un solo album precursore, utile a riflettere l’european feeling, la scelta ricade su Astigmatic (1965) del pianista polacco Krzyzstof Komeda dal quintetto talentuosissimo: i locali Zbigniew Namysłowski (alto) e Tomasz Stańko (tromba), il tedesco Günter Lenz (contrabbasso), lo svedese Rune Carlsson (batteria). Capolavoro è l’iniziale title track di circa 23 minuti con intro melodica sfibrata dal sapore balcanico della tromba, a cui segue, acquisendo fisicità sonora, un crescendo “modale” di proporzioni ancestrali: la batteria pulsa nervosa, mentre il pianoforte, grazie a linee di fuga prolungate (sempre fedeli agli schemi modali), risulta vivace e irrequieto, a calarsi nel ruolo di direttore orchestrale, onde pilotare il quintetto verso un european feeling in termini di coesione emotiva; la tromba disegna trame inquietanti dai cromatismi netti, aspri, potenti, espansi dentro un’angoscia esistenziale comunque trascendente. Il pianismo di Komeda pare rileggere Cecil Taylor alla luce del romanticismo chopiniano, l’azione di Stańko è segno deciso, terribile, poetico nella storia dello strumento, ricavando una vocalità dolce e dilaniata, fra la sobria inquietudine di Davis e le lunatiche turbolenze di Cherry. L’alto accetta la sfida con un’esegesi intricata e stratificante, in grado di tradurre in lirismo mitteleuropeo le genialoidi cacofonie di Ayler, Coleman, Coltrane. L’epilogo è da brivido, coagulando il meglio dei cinque in un crescendo via via pulsante, parossistico, perentorio. A sottolineare l’european feeling è poi il tono melodico radicato nelle tradizioni musicali polacche ed Est Europee.