Recensioni
French Jazz Style 2 Swing e cool all’ombra della Tour Eiffel
La Nouvelle Orléans
Si possono dunque ascoltare – su “Jazz In Paris” – decine di jazzmen statunitensi, europei e ovviamente francesi che a Parigi lasciano tracce discografiche memorabili, anche dal punto di vista quantitativo, come non succede prima, durante e dopo in nessun altra città, fuori da New York, in un periodo abbastanza ristretto: nemmeno Chicago, New Orleans, Los Angeles posso vantare ‘tanta roba’ a leggere sulle copertine i ‘giganti’, ovvero Louis Armstrong, Chet Baker, Art Blakey, Donald Byrd, Miles Davis, Stan Getz, Dizzy Gillespie, Lionel Hampton, Earl Hines, Kid Ory, Oscar Peterson, Max Roach, Sonny Stitt, Sarah Vaughan, Mary Lou Williams, Lester Young, per citare solo 16 leader indiscussi di hot, swing, bebop, cool, hard bop…
Sulle origini del french jazz style, molti storici fanno anzitutto notare che il jazz nasce in una città, New Orleans, fondata dai francesi – la Nouvelle Orléans, che a fine Ottocento può ancora vantare qualche reminiscenza tricouleur, prima del melting pot formato da americani di origine britannica, e poi via via da neri, creoli, ispanici, immigrati europei soprattutto da Italia, Russia, Irlanda, Scozia, Scandinavia, Polonia, Germania, Balcani; inoltre le marchin’ band derivano dalle parate militari dell’esercito napoleonico, il ragtime in parte dalla quadriglia, il minstrel show dal vaudeville. L’intera regione, la Louisiana, acquistata dagli Stati Uniti nel 1803, anche oggi vanta qualche isola linguistica francofona, nonché musiche popolari nere e bianche, come lo zydeko e il cajun, che, oltre ad avere i testi cantati in francese, posseggono strutture musicali derivanti dal folklore dell’Hexagone tra Sei e Settecento.
Il french jazz style (aggettivo inglese tradotto da françois, ovviamente francese) si deduce anche dall’accoglienza manifestata verso l’hot jazz già dagli anni ’10 novecenteschi a Parigi e dintorni; sono in primis le élites culturali, dai compositori attivi nella Ville Lumière – via via Ravel, Debussy, Milhaud, Honegger, ma anche Stravinskij e gli americani Gershwin e Antheil – ai movimenti d’avanguardia – dada, fauves, surrealismo, cubismo – a essere attratti dai ‘ritmi negri’ che hanno modo di conoscere direttamente alla fine della prima guerra mondiale, quando stazionano nelle principali città, le citate band (soprattutto nere) dell’esercito statunitense: il clima instaurato tra musicisti e popolazione locale in ambienti cosmopolita assolutamente contrari a razzismi e pregiudizi, stupisce i musicisti di colore, abituati in patria a una quotidianità segregazionista. Il ritorno a casa fa prendere coscienza ai suonatori della diversità di trattamento tra le due sponde dell’Atlantico, spingendo i jazzmen di colore (anche importanti, dopo la crisi del 1929, meno avvertita rispetto all’America) a compiere numerose tournée in Europa e in particolare a Parigi, dove tutto è possibile. Alcuni artisti non faranno più ritorno negli States: la cantante ballerina Joséphine Baker acquisirà persino la cittadinanza francese, il clarinettista Sidney Bechet diverrà un’autentica pop star.
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