Recensioni
I Rebels di David Bowie
Scrittori, registi, cantautori dopo la scomparsa del Duca Bianco
Guido Michelone
A oltre sei anni dalla scomparsa (10 gennaio 2016) David Bowie (al secolo Dave Robert Jones), il Duca Bianco è sempre al centro dell’attenzione sia mediatica sia culturale, attraverso ristampe di dischi, edizioni deluxe in CD o LP, mostre celebrative, libri su di lui di vario tipo, come quello, interessantissimo per comprendere anche le sue radici artistiche, dal titolo Il Book Club di David Bowie (Blackie Edizioni), sottotitolo I 100 libri che hanno cambiato la vita di una leggenda curato da John O’Conneli, che rivela al pubblico i romanzi, i saggi e le poesie di un lettore avido, curioso, intelligente.
Ma c’è un altro libro che merita una riscoperta e una rilettura a quasi cinque anni di distanza (quindi di uscito nel solco del cordoglio per la morte della rock star) ed è Rebels. David Bowie in 6 ritratti d’autore (La nave di Teseo), dove scrittori, registi, cantautori offrono la propria visione attorno a un personaggio chiave per le loro stesse esistenza.
Inizia Franco Battiato, il cantautore italiano forse maggiormente accostabile al Duca Bianco per la versatilità con cui affronta un sessantennio di carriera musicale: “Bowie ha passato l’ultimo anno e mezzo di vita a combattere con un tumore, senza renderlo pubblico. Ma la sua creatività non è venuta meno con la malattia, tanto che il musicista continuato a lavorare all’album Blackstar – il venticinquesimo in studio – uscito l’8 gennaio 2016. Un addio messo in musica a chi l’ha amato, nonostante follie e sregolatezze. (…) Due mogli, due figli e tante trasgressioni, musicali e sessuali in tutte le direzioni. Tanti scatti a colori, in bianco e nero e una frase: ‘La sofferenza è reale, ma anche Dio’. Il finale l’ho sempre visto così: ‘Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito’”.
Restando in ambito nazionale, commuovono le parole di Carlo Verdone, attore e regista di estrazione comica, ma pure fine conoscitore (e un passato di batterista) di musica pop e rock, da lui spesso utilizzata nei propri film, che ha parole d’elogio per l’ultimissimo capolavoro musicale di David Bowie medesimo: “(…) Blackstar: una grande stella nera su fondo bianco. Per la prima volta in assoluto Bowie era assente. Sapevo che era malato da oltre un anno ma non che si trovava a un passo dalla fine. Giusto il tempo di acquistare il disco e il giorno dopo apprendo che… David Bowie è morto. Tutto torna. Avevo visto il video di Lazarus poche ore prima. Immagini sgradevoli, inquietanti, in cui il corpo pallido e consumato di una star sul baratro del nulla si dibatte forsennatamente su un letto, con gli occhi coperti da una benda. Proprio quegli occhi la cui midriasi, spesso scambiata per eterocromia, aveva contribuito alla mitologia del personaggio. E il finale: il macabro saluto di un fantoccio che scompare nel buio di un armadio. Per sempre. Se avessi ascoltato Blackstar qualche mese prima, la lettura sarebbe stata quella di un’opera eccezionale. Ma con il lume della consapevolezza il disco appare, di più, come la disperata dimostrazione di una vitalità, di una energia, di una creatività che voleva tutti costi sopraffare la morte. E la senti in brani come Dollar Days o I Can’t Giove Everything Away. È incredibile come Bowie abbia trovato la forza e la lucidità di interpretare, pianificare, la sua uscita di scena come un grande evento multimediale: un ultimo, stupefacente, show”.
In Rebels c’è poi la testimonianza di chi, come Tony Visconti, produttore amnericano (ma attivo con band e solisti inglesi) lavora con lui fianco a fianco per moltissimi anni: “Era ottimista [David Bowie] perché la chemio stava funzionando e a un certo punto, a metà dello scorso anno, la malattia era in remissione. Ero felicissimo. Lui era un po’ preoccupato e mi ha detto: ‘Beh, non festeggiare troppo in fretta. Per ora sono in remissione ma vediamo come vanno le cose. Ha continuato la chemio terapia e credevo che ce l’avrebbe fatta. Poi a novembre è tornato il male. Si era diffuso in tutto il corpo e da lì non si torna indietro. (…) Era così coraggioso. La sua energia era incredibile, per essere un uomo che aveva il cancro. Non ha mai mostrato paura. Era concentratissimo sul disco. (…) Quando ci siamo visti nel 2008 o 2009 aveva preso un po’ di chili. Era in carne, con le guance rosa. Non era malato. Prendeva solo una medicina per il cuore. Una cosa normale, come fa tanta gente di cinquanta o sessant’anni che si cura il cuore e vive a lungo. Quindi tutto era sotto controllo”.
Ci sono poi anche i ricordi di altri due americani, stavolta romanzieri. Inizia Michel Cunnigham: “ Quando ci trovavamo nel suo studio, David si metteva a lavorare a brevi brani musicali, al piano o al sintetizzatore. Non ero mai stato in presenza di un talento come il suo, e di certo non nelle prime fasi della composizione, quando semplicemente improvvisava procedendo per tentativi. Ma ciò che ‘provava’ era subito affascinante, complesso, commovente. Mi spiace di non poterlo riprodurre per voi. Non fu mai registrato. Le canzoni erano sfacciatamente belle ma avevano qualcosa che potrei solo definire come un oscuro ronzio di sottofondo. Avevano un‘urgenza. Erano magnifiche e, in qualche modo, anche lievemente sinistre. La musica è un linguaggio che David parlava fluentemente. Se considerasse se stesso un genio, non lo fece mai notare. Sembrava semmai sorpreso di scoprire che la maggior parte delle persone non può semplicemente sedersi al piano e tirare fuori, senza studio o pratica, riff già dotati di anima in profondità e (nel nostro caso, almeno) di un sottostante sussurro di malinconia”.
E prosegue Rick Moody: “ David Bowie è un artista che deve essere sempre visto relazione alla cultura e alla storia. Deve pubblicare l’album giusto al momento giusto e, purtroppo, allontanarsi dai riflettori dell’opinione pubblica per permetterci di apprezzarlo nel modo giusto. David Bowie sembra stagliarsi come un titano, un mastodonte della canzone non solo per via del suo particolare contesto, ma anche perché ha realizzato un album con più passione di quanta riesca a infondere in un disco intero la maggior parte dei musicisti. Fermi, c’è dell’altro: David Bowie ha realizzato un album, quando invece ogni giorno quasi tutti gli artisti fanno qualche singolo, un paio di video su YouTube, un pezzo, un solo brano, mentre il resto delle loro uscite sono del tutto trascurabili”.
Ma forse la sintesi migliori di quel che resta di David Bowie nell’immaginario collettivo viene fornito infine dallo scrittore olandese Michel Faber: “Statisticamente parlando, ben pochi abitanti del pianeta hanno conosciuto personalmente David Bowie, il che non hai impedito che moltissimi abbiano reagito alla sua morte con intenso dolore. Tanti hanno avuto l’impressione di averlo avuto accanto nel corso della vita, sicuri che non li avrebbe lasciati soli ad affrontare il declino fisico e la morte. Da un decennio all’altro, Bowie ha avuto un ruolo significativo negli amori e nei matrimoni di tanta gente. Non mi riferisco al suo onnivoro appetito sessuale – intendo dire che le sue canzoni sono state la colonna sonora della vita comune di tante coppie: della loro intimità, delle loro aspirazioni, delle loro delusioni”.
Su Bowie si potrebbe discutere all’infinito, ma per ricordarlo, oltre i grossi nomi, appena tirati in causa, basta citare una sua risposta a un’intervista del 1987 dove, ancora quarantenne, preconizza il resto della propria esistenza: “Quando sei giovane pensi che qualsiasi piccola cosa tu faccia nella vita di ogni giorno sia sacra e importante. Quando cresci, quando invecchi, ti rendi conto che le azioni di una persona non contano poi così tanto nel grande disegno universale. Spero di iniziare a prendermi sempre meno sul serio man mano che passa il tempo, di tornare a guardare le cose dalla giusta prospettiva, più semplice e meno stressante”.
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