Recensioni
I Tre monologhi di Valentina Diana
a cura di Guido Michelone
La torinese cinquantaquattrenne Valentina Diana è un’artista poliedrica: due romanzi, raccolte di poesia, attrice in TV e al cinema e soprattutto tanto, tanto teatro nei panni dell’interprete, della regista e della drammaturga. Del resto quasi tutta la sua opera potrebbe definirsi teatrica, teatrale o teatraleggiante a cominciare dai reading poetici giovanili, dove la lirica aumenta in valenza espressiva grazie al corpo e alla voce della protagonista.
Il libro che ora pubblica, nella prestigiosa collana “Collezione di teatro” (Einaudi) giunta al numero 457, rappresenta per lei (e in senso lato) la quintessenza del linguaggio teatrale; infatti il monologo, dove l’attore è solo, a tu per tu con se stesso, di solito su palcoscenici minimali, consente a Valentina di esternare forse al meglio la propria visione del mondo. C’è però da aggiungere che la forza di questi tre monologhi viene altresì determinata dal regista Vinicio Marchioni e dall’attore Marco Vergani che, tra il 2017 e il 2019, li mettono in scena, in teatri prestigiosi (i romani Eliseo e Brancaccio e il milanese Elfo Puccini). E qui giustamente gli studiosi odierni parlano di ‘testo drammatico’ (la parola scritta) e ‘testo spettacolo’ (la scena e la recita) per far capire come solo il secondo è il teatro in quanto tale, mentre il primo resta solo una parte (quasi sempre fondamentale) di ciò che il pubblico vede, ascolta, percepisce in carne e ossa.
I testi della Diana, scritti di proposito in un italiano semplice, diretto, colloquiale, quasi basico, riflettono i contenuti quasi fossero tranche-de-vie o episodi presi dalla strada, benché la narrazione drammaturgica sia complessa e variamente stratificata, come si deduce dal capolavoro L’eternità dolcissima di Renato Cane, posto al centro, lo scritto più lungo, dove l’impiegato protagonista borghese racconta di sé, di moglie e figlio, di due medici e del nano delle pompe funebri in uno straordinario compendio sull’esistenza umana contemporanea nel dualismo ancora irrisolto, anche religiosamente, su vita e morte: impossibile rivelare altro della trama per lasciare il fruitore il gusto della scoperta. Anche l’ultimo La nipote di Mubarak è un interessantissimo apologo sul tema del razzismo e dei rapporti con gli immigrati nelle metropoli italiane, in un corpo a corpo per così dire letterario, con punti di vista quasi rotanti, tra un giornalista radiofonico e il proprietario di un chiosco di kebab. E persino l’iniziale Una passione, dove una comparsa si eleva a primadonna, sciorinando quel poco molto che sa dell’Amleto o del Vangelo, diventa la magica metafora della condizione umana dal taglio esistenzialista. Tratto comune ai tre i monologhi è l’apparente divagare e l’andamento scombinato che l’autrice impiega per condannare luoghi comuni e pensieri pseudofilosofici: e per questo la scrittura è consapevolmente eterogenea nel miscelare tragico, comico, drammatico, fra satira, surrealtà e fantascienza, che approda a un discorso ‘politico’ di grande levatura morale, senza pertanto scadere mai in ideologie o ideologismi.
Cfr.: Diana Valentina, Tre monologhi, Einaudi, Torino 2022, pagine 91, euro 10,50.
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