I vestiti della musica, un libro di Paolo Mazzucchelli

a cura di Guido Michelone

i vestiti della musica COPERTINA

 

Il bel libro del ‘raccontatore della musica’, come viene definito da amici e colleghi, introduce un tema molto interessante soprattutto per gli amanti del disco quale testo musicale e soprattutto oggetto fisico. Le copertine, ovvero i vestiti (eleganti) della musica (registrata): dopo un’anticamera di semplici buste marroni per i fragili padelloni a 78 giri, con l’avvento del long-playing, dal 1948 in avanti, la case discografiche investono soldi e creatività in involucri resistenti, talvolta di cartoncino plastificato, in cui vengono scritti il titolo dell’album e il nome dell’interprete (e dell’autore, se di classica), mentre sul retro copertina in dettaglio compare l’elenco dei brani, addirittura seguito da qualche nota critica dell’esperto di turno.
E c’è persino un momento di assoluta grandiosa inventiva per la copertina discografica (cover in lingua inglese): tra la metà degli anni Sessanta e la fine dei Seventies in coincidenza con lo splendore della pop music in particolare vicina al sound giovanile (rock, folk, soul, r’n’b, eccetera) grafici, designer, pittori, fotografi, copywriter si sfogano per trovare alla musica riprodotta l’immagine seriale adeguata, spesso in contrasto con la morale borghese, il gusto provinciale, l’estetica passatista.
Nell’impossibilità di disquisire anche solo delle migliori (e sono adecine quelle indicate dall’autore nel libro!), ecco qui invece commentate le copertine di ventiquattro album dagli involucri scomodi nel senso di trasgressivi, scioccanti, anticonformisti, introdotti cronologicamente a osservare come in un periodo abbastanza ristretto (il trentennio dal 1960 al 1992, con picco espressivo attorno al 1967-68 ci son passati il blues, il folk-rock, il beat, il british folk, la psichedelica, il glam, il prog, il reggae, il punk, la new wave, l’indie, il grunge.

1960: That’s My Story di John Lee Hooker
Tra fine anni Cinquanta e inizio dei Sixties l’industria discografica legata alla pop music decide di proporre il vero blues nero di stile campagnolo (sino allora fruito soprattutto in provincia e dagli afroamericani) al grosso pubblico urbano interrazziale privilegiando anzitutto i fans del jazz e del folk e per questo ribadendo la grafica jazz dell’epoca, come mostra questo LP Riverside sul grande bluesman – cantante, chitarrista, compositore – di Clarksdake (Mississippi). Ma i benpensanti hanno a ridire sull’espressione severa, quasi imbronciata del ‘ritratto’.

1991-1992: Beat The Boots! (1 & 2) di Frank Zappa
Il geniale chitarrista/compositore accortosi di come alcuni bootlegs (dischi pirata) lo rappresentino egregiamente, anziché intentare cause legali contro anonimi ‘raccoglitori’ di suoni concertistici, ristampa a proprie spese ben venti album in due cofanetti migliorandone (dove possibile) la qualità tecnica e soprattutto la grafica originale. La lungimirante scelta e l’autentico rispetto dell’altrui inventiva permettono ora di rimirare ad esempio This The Sean To Be Jelly. Live In Sweden 1967 con la dirompente immagine del piede rugoso e del calzino puzzolente.

1969: Fathers And Sons di Muddy Waters
Mentre, a fine Sixties, il nuovo blues bianco (soprattutto inglese) assume musicalmente contorni psichedelici e super ego rock, quello afroamericano si mantiene coerente e fedele ai modelli r’n’b postbellici: ma per confermare la reciproca simpatia tra quest’ultimo e il pubblico giovane, le case discografiche puntano spesso su una comune strategia grafica dallo stile neosurreale, come in questa moderna rivisitazione dal michelangiolesco Giudizio universale. Si tratta alla fine di uno degli esempi più dissonanti tra musica e immagine (di copertina).

1968: Cheap Thrills dei Big Brothers & The Holding Company
La major CBS commissiona l’artwork per il secondo album del quintetto blues-rock con l’aggressiva vocalist Janis Joplin al grande cartoonist Robert Crumb, famoso per il personaggio Fritz il gatto e per la rivista «Zap Comics», ma celebre anche per suonare il banjo in gruppi old time. La copertina – con un tondo al centro a rappresentare la buffa caricatura della cantante medesima – si rivela subito un azzardo vincente: è la prima a utilizzare veri e propri fumetti, oltretutto underground che ben si combinano con un suono anch’esso alternativo.  

1967: The 5000 Spirits Of The Layers Of The Moon della Incredible String Band
Di questo gruppo scozzese – ritenuto fra i precursori del folk revival britannico, sia pur in un’ottica giovanilisticamente psycho e prog con anticipazioni world music – invitato addirittura a Woodstock, è passata alla Storia la cover di questo secondo album, dove “non si capisce nulla” almeno nel senso della decifrazione delle scritture e della diegesi delle immagini, le quali offrono una pittura hippie un po’ neoliberty e un po’ orientaleggiante, forse con un sovraccarico di allegorie e metafore, come del resto è di moda in tutte le creazioni visuali.

1968: Electric Ladyland della Jimi Hendrix Experience
Nonostante le idee chiare di Jimi Hendrix per la copertina di questo terzo e ultimo album del trio Experience nel Regno Unito, la Track Records invece utilizza una foto che ritrae venti prostitute completamente nude, alcune sedute, altre sdraiate, su uno sfondo nero con i seni in evidenza e con in mano un ritratto di Jimi Hendrix. L’impatto sull’opinione pubblica britannica è pessimo e i negozi iniziano a esporre il disco con la parte interna della copertina messa verso l’esterno. Hendrix stesso rimane imbarazzato per la fotografia e questo è uno dei motivi per cui tutte le stampe attuali del disco riportano la cover americana.

1969: Blind Faith dei Blind Faith
È lo stesso autore, Bob Siedemann, a spiegare nel 1977 il significato di questa scioccante immagine per un supergruppo che si ferma a quest’unico album: “La vergine senza responsabilità è il frutto dell’albero della vita. L’astronave è il frutto dell’albero della conoscenza (…) Ciò che avevo in mente è che la realizzazione di un disco fosse paragonabile all’atterraggio sulla Luna. Come un uomo che cammina nella galassia volevo che l’innocenza guidasse la mia astronave”. E per questo cerca “una ragazza in una zona di crepuscolo, che dia un’idea di innocenza insieme all’approccio all’età adulta”.

1966: Yesterday And Today dei Beatles
Così John Lennon giustifica la scelta di questa copertina: “Eravamo stufi di fare l’ennesima photo session, ancora un’altra cosa alla Beatles”. Perciò i Fab Four si fanno immortalare tra bambolotti a pezzi e brandelli di carne bovina per sensibilizzare metaforicamente le loro audiences sulla tragedia della guerra in Vietnam: ma in America le 750.000 copie stampate vengono subito ritirate dal mercato con l’accusa di violenza e oscenità e l’album diverrà una chicca per collezionisti. Per i Beatles, a seguire, numerose altre stupende cover (Revolver, Abbey Road, The White Album e soprattutto il già pluricitato Sgt. Pepper).

1968: We Are Only In It For The Money delle Mothers Of Invention
Fedele alla propria indole trasgressiva, Frank Zappa fa il verso al quasi coevo e già rinomatissimo Sgt.Pepper beatlesiano, cancellando ogni intenzione artistica con l’idea di fare pop music solo per denaro: e il concetto viene rimarcato allestendo una copertina alla stregua di un Sgt. Pepper in negativo: sfondo temporalesco, nome del gruppo scritto con frutta e verdura, figure di contorno non propriamente edificanti da Nosferatu a Nostradamus, da un vero Jimi Hendrix a Lee Osvald (attentatore di Kennedy) nella foto in cui a sua volta viene colpito a morte. E le ‘madri’ travestite da donne…

1965: Bringing It All Back Home di Bob Dylan
Si tratta di una delle rare copertine in cui l’immagine fotografica, oltre il ritratto del folksinger (da poco convertito al rock) in primo piano, è strapiena di oggetti concernenti lo stesso ‘primattore’: si notano, vicino a lui, le buste sia degli album dei musicisti preferiti sia del precedente Another Side Of Bob Dylan; e si percepiscono anche sottili riferimenti alla Guerra Fredda dal cartello del rifugio antiatomico alla copertina di «Time» con il presidente Johnson. Altre presenze animate riguardano il gatto Rolling Stone e la giovane bella signora in rosso vicino a un neoclassico caminetto, il tutto racchiuso in un fish eye.

1971: L. A. Woman dei Doors
Sembra trascorso un secolo, ma sono soltanto quattro anni che intercorrono dal primo (omonimamente The Doors) a quest’ultimo album della band losangelina con Jim Morrison. Per l’esordio discografico la label Elektra punta molto sulla leadership del cantante al punto da regalargli un immenso primo piano (con Manzarek, quasi reclusivo nel sottofondo scurissimo). Invece per il commiato, il Re Lucertola (ormai grasso e barbuto) per la foto di copertina si colloca in fondo alla destra di chi osserva, abbassandosi di proposito per apparire più piccolo degli altri, quasi allegoricamente a scomparire e ad allontanarsi dalla pop music.

1970 Atom Heart Mother dei Pink Floyd
Il gruppo di Waters, Gilmour, Wright, Mason, dopo la fase psichedelica, orfano di Barrett e ormai proiettato verso un prog via via altisonante e commerciale (salvo l’opera ‘politica’ The Wall) investono molto nell’immagine: per il disco che sul lato A comprende una delle composizioni più vicine al sinfonismo classico dell’intera rock music, l’immagine scelta è quanto di più lontano sia dalla cultura visiva tradizionale sia dalle moderne sperimentazioni figurative: ma la foto della mucca pezzata tra prato verde e cielo azzurro senza alcuna scritta marca una svolta epocale: disprezzata da molti, resta ancor oggi un segno dell’immaginario del XX secolo discografico.

1976: Small Change di Tom Waits
La scena è quella vista tante volte nell’immaginario visivo statunitense: uno stretto angusto camerino di un probabile teatro per rivista o avanspettacolo: seduto sul banco del trucco, specchio alle spalle, in elegante abito c’è lo stesso Tom Waits, con aria pensosa: la testa è di traverso e lo sguardo a terra. Fin qui niente di male: ma la spogliarellista in microslip di fronte a lui, appena in secondo piano, fa indignare i censori e i bacchettoni, senza capire che l’atmosfera decadente, quasi da beat generation, resta congeniale alle dolenti note musicale del geniale cantautore.

1971: Islands dei King Crimson
I fans del quintetto di Robert Fripp per il quarto atteso LP si aspettano in copertina ancora qualche bella pittura neosurreale come nei primi tre album. A sorpresa invece appare una foto al telescopio nella nebulosa Trifida (costellazione del Sagittario), a tutto campo, ma priva di scritte (inserite nella ristampa). L’idea di questo tipo di immagine più che alla critica piacerà molto ad altri musicisti, ad esempio Cat Stevens che la ripete in Numbers (1975) con significative variazioni o ancora la Mahavishnu Orchestra con un’altra ignota nebulosa in Beetween Nothingness And Eternity (1972).

1971: Sticky Fingers dei Rolling Stones
Le Pietre Rotolanti, fin dagli esordi, offrono di sé un’immagine trasgressiva ovunque, anche mediante le copertine dei vinili: quattro anni dopo la celeberrima banana per i Velvet Underground, Jagger & Company chiedono a Andy Warhol una cover ancora più scioccante e innovativa: l’artista pop non ci pensa due volte e crea la foto dei jeans in primissimo piano con una vera zip metallica incollata sul bianco e nero. Tutti contenti tranne grossisti e negozianti perché l’oggetto in rilievo danneggia le altre copie pigiate negli scatoloni per il trasporto.

1973: Nuda dei Garybaldi
Benché firma d’autore – il Guido Crepax che quindici anni dopo i jazzisti torna alla musica con una bella ragazza simil Valentina – l’immagine disegnata (e acquerellata) assieme al titolo esplicito suscita le perplessità dei censori in RAI. Le sette tracce del quartetto genovese prog (con influssi blues) invece trovano perfetta sintonia con la copertina apribile in tre parti dove la snella figura di Bianca è distesa di schiena su un prato e circondata da minuscoli rinoceronti che provano a inerpicarsi sul corpo ignudo. In assoluto una cover giudicata tra le migliori del rock italiano.

1971: Terra in bocca dei Giganti
Non è solo la copertina, è l’intero progetto – un concept album sulla mafia – a essere ipocritamente respinto dallo showbiz e dai media italiani, causando lo scarso successo di un disco importante che imprime una svolta decisiva a un gruppo pop nato in epoca beat e giunto al terzo album, con il quale chiuderà definitivamente la propria attività costante. Eppure la cover diventerà uno dei pezzi forti del proprio ideatore, Gianni Sassi, che fra l’altri presta il suo corpo per il personaggio disteso sul pavimento, senza una scarpa, con le margherite in mano. L’album riceve nel 2002 il premio Paolo Borsellino.

1980: Fresh Fruit For Rotting Vegetables dei Dead Kennedys
Fedeli alla linea eversiva del nuovo sound giovanile californiano, il quartetto anarchico di San Francisco, definibile hard core punk, offre, per l’esordio discografico, un’immagine di copertina da shock visivo ed emotivo, come avviene del resto con il nome della band. La foto in un cupo bianco e nero ritrae le automobili della polizia di Frisco che vengono bruciate negli scontri con i manifestanti del 21 giugno 1979 in segno di protesta contro la sentenza al processo dell’assassino del sindaco. I caratteri gotici per la scritta in giallo Dead Kennedys sono ironicamente le ciliegine sulla torta.

1983: War degli U2
Giunto al terzo album, il quartetto irlandese senza mutare il proprio rock, decide di puntare sui testi politicamente impegnati con risultati eccellenti. A sottolineare la durezza e l’assurdità della parola e del concetto “guerra” ci pensa il volto infantile in primissimo piano, che suscita rabbia, sdegno, paura. Per lo scatto gli U2 scelgono di nuovo Peter Rowen, oggi [2018] noto fotografo), qui di proposito raffigurato con una lacerazione sul labbro; il bimbo inoltre sarà pure sulla copertina del singolo Sunday Bloody Sunday e su quella di Two Hearts Beat As One (oltre al clip omonimo).

1988: Surfer Rosa dei Pixies
In copertina la foto di un “amico di un amico” della band mostra una ragazza a seno nudo, ma in posa e in abiti da ballerina di flamenco, appoggiata contro un muro dove si notano un crocifisso e un poster strappato. Simon Larbalestier, che contribuisce a tutte le immagini degli album del gruppo, sostiene che l’idea viene suggerita dal leader Black Francis mentre scrive canzoni nel topless bar spagnolo del padre; discutendo ancora la cover nel 2005, Francis afferma “Spero solo che le persone la trovino di buon gusto”, riferendosi ai propri compatrioti vista la paternità inglese della label 4AD.

1991: Nevermind dei Nirvana
Le associazioni per la difesa dei minori insorgono negli Stati Uniti quando esce il secondo studio album per il trio di Seattle: il neonato in acqua che nuota verso una banconota legata a un filo come esca viene considerata immorale e offensiva: all’epoca è il fotografo Kirk Weddle a chiedere ai genitori di Spencer Elden (oggi pittore) di usare il bambino per l’immagine in copertina; padre e madre vengono ricompensati con 200 dollari, mentre l’immagine del dollaro fluttuante verrà aggiunta in seguito con tecnica digitale. Non è la prima volta che in America non vengono capite ironia, satira, provocazione.

1974: Country Life dei Roxy Music
Fotomodelle e in genere belle donne sono quasi sempre protagoniste delle copertine di questa band, il cui nome significa rock + sexy. Forse la miglior cover resta quella del primo 33 giri Roxy Music con la nota indossatrice Kari-Ann Müller (s)vestita da pin up anni Cinquanta, benché l’immagine trasgressiva appartenga alle due ragazze di questo quarto album, turiste in Portogallo e immortalate da Eric Boman. In America la censura ritiene offensiva la mano della prima sulle mutande, mentre per la seconda pensa a un transessuale; morale della favola: negli USA si vedono solo gli aghi di pino usati come sottofondo per l’originale.

1966: If You Can Believe Your Eyed And Ears dei Mama’s And The Papa’s
Per l’album d’esordio il quartetto vocale californiano si fa riprendere nella vasca da bagno, sorridente e completamente vestito. Ma la censura americana interviene doppiamente in due momenti distinti: il primo consiste nell’applicare un’etichetta sopra la tazza del cesso che si vede a sinistra della vasca; il secondo ben più greve, taglia la foto per lungo mostrano i quattro dal collo in su, nascondendo le gambe di Michelle – fasciate di jeans bianchi e stivali marrròn – che s’allungano sugli altri in una posa cameratesca ritenuta ‘oscena’ dalla morale borghese a stelle e strisce.

1976: Rastafan Vibrations di Bob Marley & The Wailers
Nella cultura giamaicana il reggae e il rastafarianesimo sono intrinsecamente legati al culto della ganja assunta mediante enormi spinelli. Non a caso Marley viene fotografato in primo piano mentre fuma autentici ‘cannoni’ sui long playing Catch A Fire (1973) e Burnin’ (1973), mentre per la prima stampa americana di Rastafan Vibrations il cantante non solo si fa ritrarre a olio con i colori dell’Etiopia sul berretto e sui titoli, ma soprattutto si premura di realizzare il bordo interno della busta, a mo’ di juta dalla trama ruvida perché “questa copertina è ottima per pulire l’erba”.

E se poi se ne vogliono conoscere altre non c’è che il libro di Paolo Mazzucchelli ‘I vestiti della musica’ sottotitolo ‘Viaggio fra le meraviglie delle copertine dei dischi’ edito quest’anno da Stampa Alternativa: 125 pagine ricchissimamente illustrate al prezzo di venti euro!!!