Jack Hirschman e Agneta Falk [15 Oct.]

Uscii di casa, dopo cena, che iniziava lentamente a piovere. Con il mio giubbotto blu, le sigarette in tasca, il telefono, senza nemmeno portare la borsa: solo con venti euro infilati in un pacchetto di fazzoletti. Avevo fatto in fretta, salutato infilando la testa nella porta, ed ero scesa per le scale quasi correndo, due gradini alla volta.
Era l’unica serata libera della settimana, e cadeva spesso di giovedì: la figlia di Maurizio smetteva di lavorare alle cinque e veniva, verso le sette, a casa di suo padre. Nelle scale, mentre uscivo, si sentiva bene l’odore della Żurek appena cucinata, zuppa calda di salsiccia e patate, che ricordava molto quello di casa mia, a Varsavia. Un odore di pantofole davanti alla porta, di mobili e rumori familiari. L’odore del quotidiano, insomma, il solo in qualche modo, in grado di rendere sopportabile l’esperienza di ciò che sta fuori.

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20.20
La macchina dei parenti era parcheggiata accanto al marciapiede, sotto la pioggia. Ogni settimana lo stesso: sua figlia posteggiava, apriva il cancello con le chiavi, saliva a piedi fino al quarto piano, si puliva le scarpe.
Avevamo cenato assieme, con la Żurek calda e delle fettine di manzo cotte in padella: una cena veloce, finita con un melograno, e un fondo di Bonarda, torbido, nei bicchieri. Come ogni giovedì mi ero vestita in fretta- pantaloni, maglia e giubbotto – e avevo salutato, uscendo di casa.
Fuori pioveva a intermittenza, un’acqua fredda e sottile. Presi l’ultimo tram serale, verso il centro, guardando passare rapidi lampioni, fanali e altre cose un attimo prima magnifiche, l’attimo dopo atroci. E mi sentivo così, come abbandonata: un’ ambulanza, all’incrocio, ferma sotto la pioggia.

 

20.47
Scesi alla fermata del Duomo, continuando a piedi fino al Pub. Con capelli bagnati occhiali bagnati e giubbotto bagnato, buttai l’ombrello rotto nella pila degli ombrelli. Mi tornò in mente, in quel momento, una notte di una decina di anni prima. Facevo la ballerina in un locale di Cracovia, e dopo il lavoro ci fermavamo spesso in due, in tre, a mangiare un boccone. Una notte, che in realtà era quasi mattino, entrata nel solito bar, con l’ombrello abbandonato in un angolo, mi sedetti e rimasi ferma, così, per più di tre ore. Da sola. Nel silenzio di una sala che solo verso le sei e quaranta iniziò a riempirsi. E provai un senso di vuoto, come sentirsi estranei a sè stessi da un momento all’altro. Come bere e poi fissare il muro. Che sono cose, queste, che succedono raramente, e quando succedono è perché ci sono dei buchi, io credo, nel tessuto dell’esistenza.
Buttai l’ombrello nella pila degli ombrelli, pensando agli strappi che, per forza, ci dovevano essere da qualche parte. La sala era colma di gente. Dario, con la sua barba nera e i capelli neri, pallido e stravolto, batteva le dita sul microfono. La camicia, la giacca di velluto.

 

21.00
Sembrava un pomeriggio a Rynek Starego Miasta, la piazza della città vecchia, tra la gente che camminava – turisti e locali – tutti assorti a guardare le case con le loro giacche, i cappotti, in piedi, le locandine in tasca. In mezzo alla gente, mi ricordo, c’era un uomo più bianco degli altri e fissava il cielo davani a Casa Wilczek.

Dario, come a Rynek Starego Miasta, con il suo cappello la giacca di velluto, fissava un punto alle spalle del pubblico.
La luce artificiale si accese dall’alto, lo schermo bianco venne illuminato, i rumori delle sedie smisero di colpo. Dicono che in quella frazione di secondo, il pubblico della poesia possa sembrare minaccioso: in realtà, io credo, è proprio allora che il pubblico è più innocuo: solo e in attesa, di fronte a se stesso.
E’ il motivo per cui si scrive poesia e si ascolta poesia, in fondo: passare rapidamente da uno stato di incolumità ad uno di potere. Sviscerare, nella scrittura. Attendere, nell’ascolto. Accogliere il senso prodotto dalle parole nello stomaco.
“Eccoci qui ancora una volta/ seduti di fronte al pubblico della poesia/ che è seduto di fronte a noi minaccioso/ ci guarda e aspetta la poesia”

 

21.15
Jack Hirschman attraversò la sala, con un’andatura incerta e pesante. L’equilibrio del corpo, sbilanciato da un lato, la sciarpa rossa legata attorno al collo.
Cinquant’anni prima aveva fatto il professore all’università di Los Angeles. Aveva partecipato al movimento d’opposizione alla guerra del Vietnam. Era stato promotore di proteste e manifestazioni. Era stato licenziato.
Attraversò la stanza sorridendo, con un cappello a tesa larga in mano. Sua moglie Aggie, dall’altro lato, lo accolse con un abbraccio. Un rapido abbraccio, senza strette, di fronte al pubblico della poesia.
Jack aveva conosciuto i poeti della Beat Generation, Corso, Ginsberg, Ferlighetti; se ne era distaccato. Si era avvicinato al marxismo, dirigendo Compages: una rivista internazionale di traduzione di poesia rivoluzionaria. Conosceva nove lingue. Aveva pubblicato più di cento opere tra libri opuscoli e riviste. Aveva girato mezzo mondo. In quel momento, però, lì di fronte, era un uomo con una sciarpa rossa, un maglione infeltrito addosso, e con un libro tra le mani. Come il brillante residuo di un’epoca, sciolto sul fondo di un bicchiere

Lei stava appoggiata
al muro vicino
all’Hotel Tevere con in mano
un biccchiere di plastica
quando iniziò a piovere.
Ho cercato una moneta, le sono
andato vicino
e l’ho fatta cadere nel bicchiere.
Cadde sul fondo
di un’aranciata.
Sono arrossito, ho guardato
i suoi occhi devastati e la pelle
e i capelli diventati prematuramente

grigi, e ho detto che
mi dispiaceva, che avevo pensato
avesse bisogno di soldi.
“Ne ho bisogno”, rispose
e sorrise “Stavo
solo bevendo
qualcosa”.
E restammo così
a ridere assieme
mentre guardavamo le gocce di pioggia cadere
sul lago d’arancia
sopra la moneta che affondava.

 

22.40
Il pubblico applaudiva. Fuori aveva smesso di piovere. Era il momento in cui l’evento, ormai prossimo alla fine, manifesta tutto il proprio potere evocativo. La moneta affondava tra gli applausi in un lago d’arancia. Aggie sorrideva. Jack pure. La folla si alzò in piedi e si sciolse, come certe manifestazioni popolari della mia infanzia, che si radunava in piazza del castello; verso sera, con bicchieri di plastica in mano, tornavano tutti a casa.

Nessun tram. Nessuna voglia di rientrare. Sotto i portici tirava un vento gelato, mi sedetti. Passavano persone, mi legai i capelli. Altri seduti accendevano sigarette. Con un urgente bisogno di andare in bagno, mi frugai nella tasca cercando le chiavi, e nella tasca c’era un pezzo di carta.

era un giorno di festa quel giorno di ottobre
in cui è venuto a leggere in città il poeta jack
hirschman con la sua sciarpa rossa e i suoi grandi baffi
e una risata più contagiosa di tutto il reparto
di malattie infettive, infermiere comprese. lui
è arrivato con sua moglie agneta: ma la chiamava aggie,
per tutto il tempo, ed aggie ripeteva e rispondeva:
jack, non bere ancora vodka,
ma la vodka ha il sapore di un fulmine lento
mentre il cielo era grigio, lui doveva scacciare
anche la pioggia dalla città,
portare qualcosa che assomigliasse al sole,
a una poesia che possa far rivivere pierpaolo pasolini
e jack rideva, siete italiani, siete italiani
ma non sapete chi è lamberto maggiorani,
(ladri di biciclette, zavattini, è brava questa pizza,
molto brava): perché era un giorno di festa quel giorno
di ottobre, in cui è venuto a leggere in città
il poeta jack hirschman, non c’era un posto libero,
tutto esaurito, soltanto posti in piedi, e cani sul fondo
della sala: così doveva essere davvero speciale
la sua poesia o la sua voce o gli occhi che ridevano
durante la lettura, se infatti hanno cambiato anche la lampadina
al cesso, in osteria : da quel momento
in poi, è stato chiaro che nessuno avrebbe più pisciato al buio

[Dario Bertini]

 

BIOGRAFIE

JACK HIRSCHMAN http://www.casadellapoesia.org/poeti/hirschman-jack/biografia

AGNETA FALK https://it.wikipedia.org/wiki/Agneta_Falk

DARIO BERTINI http://www.nuoviargomenti.net/autore/dario-bertini/