La canzone di poesia di Sergio Endrigo

a cura di Guido Michelone

L’arte canzonettistica di Sergio Endrigo è, a modo proprio, sicuramente ‘canzone di poesia’, benché questo concetto vada spiegato dopo una lunga premessa storico-critica. Allora si può partire dicendo che il nome e il lavoro di questo protagonista importantissimo sono solitamente abbinati al decennio precedente, i Sixties, cosiddetti ‘favolosi’ anni ’60, quale periodo in cui il folksinger, dallo sguardo malinconico, viene addirittura confuso con la scuola genovese dei vari Gino Paoli, Luigi Tenco, Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Fabrizio De André; in entrambi i casi c’è però un fondo di verità: da un lato è vero che i brani più noti del cantautore istriano – nato il 15 giugno 1933 a Pola e mancato il 7 settembre 2005 a Roma – appartengono un periodo che va dall’exploit con Io che amo solo te (1962) fino al trionfo sanremese con Canzone per te (1968); dall’altro lo stile, l’aplomb, lo spleen, l’atteggiamento in generale lo avvicinano maggiormente agli esponenti liguri che non ai colleghi di allora di ‘scuola’ lombarda, torinese, emiliana o romana.

Tuttavia il Sergio Endrigo maggiormente creativo è quello appunto degli anni ‘70, in particolare della prima metà, quando, sempre nell’ambito della canzone d’autore, compie due rivoluzioni epocali – collocandosi quindi a buon diritto nell’ambito della canzone di poesia – di cui l’Italia all’epoca si accorge poco, tutta protesa ad applaudire i gruppi prog rock, i giovani cantautori arrabbiati, il ritorno al folclore in chiave politica o al contrario in veste kitsch, i rari fenomeni inqualificabili nello loro più o meno condivisa genialità (come ad esempio Lucio Battisti o più tardi Franco Battiato e Paolo Conte). Le rivoluzioni epocali per Sergio Endrigo sono da un lato l’incontro duraturo e felicemente collaborativo con la musica brasiliana del paroliere Vinicius de Moraes e del chitarrista Toquinho; dall’altro la scoperta anch’essa positivissima della musica per l’infanzia grazie al sodalizio artistico con il grande scrittore per i piccoli Gianni Rodari.

Ultima attività sarà un’arma a doppio taglio per Enrico che, dall’ora, per lungo tempo, dovrà identificato come ‘quello dei bambini’, con la pesante conseguenza che i media trascurano l’ancora costante presenza cantautoriale con esiti artistici di ottimo livello, ma poco noti al pubblico e alla critica. Tutto questo e molto altro ancora traspare dal volume Sergio Endrigo mio padre di Claudia Endrigo, appunto la figlia 56enne, che descrive la biografia nel 2017, aggiornandola quattro anni dopo e arricchendola della prefazione di Francesco de Gregori, fra tutti i cantautori di seconda generazione forse quello più vicino a lui, a Sergio in quanto a sensibilità, poetica, garbo, dolcezza, sguardo sulla realtà.

Il libro di Claudia si rivela una fonte esauriente e anche obiettiva nei confronti di un percorso espressivo brillantissimo, che, fra i tanti punti luminosi, vede il cantautore primattore nella rassegna internazionale Milano Aperta al Piccolo di Milano, proprio a inizio decennio, 1970, primo italiano di una kermesse che può vantare personaggio del calibro di Charles Aznavour o Juliette Gréco. Il riscontro è assai favorevole sia dal pubblico sia per la critica che ad esempio, dalle colonne del «Corriere della Sera» annota: “C’è un Endrigo in vena creativa tenue ma autentica, un gioco di temi spesso malinconici, ma non così monocorde, come a volte è stato detto (…). La sala era affollatissisma. Il successo pieno; Endrigo alla fine è stato lungamente festeggiato”.

Per Sergio si tratta di un condizione rigenerativa, come spiega al pubblico: è un estratto di un dialogo con gli spettatori che viene incluso nel oppio CD postumo e che la figlia riporta nel libro: “Dopo tanti anni di lavoro, a volte oscuro, felice, fortunato, dischi, playback televisivi, sanremi e canzonisisme, un’esperienza nuova anche per me”. Del resto il live, il contatto ‘dal vivo’ con la gente, soprattutto per i cantautori di svariate generazioni, sembra il non plus ultra del proprio lavoro artistico e non è un caso, come avviene pure con Endrigo, che tra gli album migliori della storia cantautoriale tricolore vi siano moltissimi dischi live.

“Cantare – prosegue – in un teatro vero con Bacalov, Bardotti, Crivelli e altri veri amici, per un pubblico che guarda, ascolta, giudica, applaude, partecipa è stata un’esperienza così inusuale per un cantante in Italia, e per me così felice, che sinceramente avrei paura di ripeterla”. Tutto questo appare oggi quasi palese o scontato, ma va ricordato che nel 1970, quando i giovani cantautori quasi non esistevano e quelli ‘anziani’ della scuola genovese (o di quelle affini), il teatro è precluso a questa tipologia performativa: per i folk singer ci sono i club, le balere, le feste dell’Unità o i tour.

Cfr.: Claudia Endrigo,Sergio Endrigo mio padre, Baldini+Castoldi, Milano 2021.