La filosofia del rock

La filosofia del rock
Cantanti e gruppi sotto i riflettori del pensiero ‘forte’

 

Guido Michelone

 

Da un paio d’anni circola nelle librerie una nuova collana di musica contemporanea edita da Mimesis, in cui molti titoli in catalogo portano l’espressione “La filosofia di” seguita dai più bei nomi della musica pop, rock, jazz e blues. Qualche esempio in ordine alfabetico (riferito al solo rock): i Beatles, Eric Clapton, Led Zeppelin, John Lennon, Robert Wyatt, Frank Zappa. A scriverne non sono critici o musicologici, bensì filosofi: nell’ordine Donà, Rezzi, Snaidero, Arena (due volte) e Marino. E l’idea è proprio quella di connettere un sound in apparenza selvaggio, irrazionale, sorprendente, istintivo a un pensiero speculativo, ovvero complesso, logico, profondo e dialettizzante.

In che modo dunque la filosofia del rock? Innanzitutto, tirando le somme su quanto ascoltato di questi musicisti ripartiti in due gruppi e quattro solisti (cinque inglesi e un americano), si scopre subito che il periodo d’oro della musica giovanile degli anni Sessanta (di cui certo rock ‘sperimentale’ pare incarnarne la quintessenza), sembra offrire all’ascoltatore odierno un efficace suggerimento indiretto, in fondo lo stesso di cui narra, circa due secoli e mezzo fa, il grande scrittore tedesco Johann Wolfgang von Goethe: “Ogni giorno dovremmo ascoltare almeno una canzone, leggere una bella poesia, vedere un bel quadro e, se possibile, dire qualche parola ragionevole”, dove per ‘parola ragionevole’ forse si esprime in modo indiretto un atto d’amore verso la filosofia.

È nel cosiddetto periodo aureo degli anni Sessanta che si può inoltre osservare il lavoro di squadra tipico della cultura rock ‘che vale’ e che ‘conta’, giacché nel momento di crescita del rock non è importante solo la voce dell’interprete (il tipico front man) che appare sulla copertina del 45 giri o in un programma radiotelevisivo: anche quelli che gli stanno vicino (il resto della band, chitarre, basso, batteria, e via via tastiere, fiati, percussioni) e soprattutto quelli che si trovano dietro – solisti, cori, supervisori, discografici, manager, turnisti, produttori, fotografi, tecnici del suono, nonché compositori, parolieri, arrangiatori, orchestrali, laddove i rockmen non scrivono e non eseguano i loro brani ma non è proprio il caso di Beatles, Clapton, Zeppelin, Lennon, Wyatt e Zappa – svolgono più che egregiamente un compito che ancora oggi sta dando frutti preziosi come rivelano le statistiche degli album più venduti (tanti autentici longseller per i nomi sopracitati) in quanto filosoficamente risultano musiche atte a esprimere un appassionato racconto, in cui si possono effettuare letture per così dire incrociate o trasversali ad un’attenta disamina sia musicologica sia sociologica.

Infatti le singole melodie, i roboanti assolo, gli indiavolati ritmi e soprattutto i dischi a 33 giri assunti a concept album anche quando (come per Sgt. Pepper) gli autori negano tale paternità, denotano sempre un filosofico dualismo fra amore e intelligenza (ossia il cuore e il cervello) in modo tale che i vari rock espressi da questi sei nomi possono essere ascoltati via via a seconda del testo letterario (dove si alternano la passione, l’amore, la politica, l’autocoscienza, il misticismo, l’impegno, il divertissement), del genere musicale (beat, psichedelia, rock-blues, hard rock, avant garde), dalle cadenze (slow, fast, ballad, shake, exotica, citazionismo, revival) o ancora dello spirito complessivo (gioia, malinconia, felicità, tristezza, calore, solitudine, allegria), magari scoprendo, nel leggere ciascun libro, in parallelo l’identità, il credo, la forma mentis dei sei cantanti e dei due gruppi che interpretano al meglio questa combine di aggregazione musico-psico-culturali.

Si può quindi definire un periodo d’oro del rock, perché questa musica, in particolare a metà degli anni Sessanta, comprende e favorisce situazioni espressive poliedriche a livello di forme e contenuti: ci sono i primi rockers statunitense accanto ai british bluesmen britannici, ci sono i primissimi cantautori (la scuola del Greenwich Village) accanto al cabaret provocatorio (sempre nella New York alternativa), ci sono il folk revival inglese e il folk-rock nordamericano, ci sono originali sperimentatori dalla psichedelia al nascente progressive, dal beat al soul, dal neodada all’hard rock; e ci sono persino – quasi una categoria speciale! – i brani rock rifatti da altri musicisti in modo singolare, con un raffinato stile nell’adattare al gusto preesistente le versioni aggiornate di quelle che in futuro si chiameranno cover.

Per Beatles, Zeppelin, Lennon, Wyatt e Zappa – durato il soffio di un mattino, tranne per Clapton tuttora attivissimo – classicità resta forse il termine giusto per connotare anche filosoficamente il sound di allora, in un periodo ristretto (forse meno di cinque anni, filologicamente parlando). Largheggiando, però, rispetto agli interi anni Sessanta (1960-1969), si riesce a parlare di Sixties abbracciando quasi un ventennio: da un lato il periodo d’oro infatti inizia un po’ prima nel 1960, forse già nel 1956 con il successo planetario di Elvis Presley e dall’altro finisce ben dopo il 1969, ovvero attorno al 1976 quando i critici inglesi e americani iniziano a parlare di punk a proposito di gruppi oltraggiosi (Ramones, Sex Pistols, Damned, Clash). Sul perché invece proprio i Sessanta producano, al di qua e al di là dell’Atlantico, la miglior filosofia rock di sempre ci sono teorie e ipotesi che divergono e che sono difficili da riassumere: forse leggendo gli accostamenti che tra le musiche dei vari Beatles, Clapton, Zeppelin, Lennon, Wyatt, Zappa e i pensieri che essi simboleggiano si può trarre qualche benefico insegnamento.

E un primo insegnamento è che questo rock risulta figlio magari ribelle della propria epoca: facendo un po’di Storia contemporanea, si sa infatti che per il mondo occidentale, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, il momento è storicamente favorevole alle belle arti, sia colta sia popolare, nonostante le cornici spesso violente in cui tira a campare l’intero Pianeta: il decennio infatti nasce con la rivoluzione cubana (1959) e termina con gli studenti uccisi dalla polizia alla Kent University (1970): in mezzo c’è la decolonizzazione dell’Africa, il precario clima di distensione USA/URSS, il Concilio Vaticano II, la guerra in Vietnam, rivoluzione culturale cinese, la contestazione generale sessantottesca in mezzo al boom economico europeo, al primo benessere diffuso, alla scolarizzazione di massa, alle lotte sindacali, alla liberazione del Terzo Mondo. E oltre il rock, musicalmente parlando, trionfano via via il free jazz, la bossa nova, il rhythm’n’blues, il folk revival, la ricerca seriale, puntilista, postdodecafonica dettando legge ovunque, almeno nei paesi industrializzati. Concilio Vaticano II, del settimanale ABC con le donne mezze nude in copertina.

Filosofeggiare sul rock, significa anche confrontarne le esperienze con un passato musicale anche molto lontano, giacché, per l’arte delle sette note, esistono tanti ‘periodi d’oro’ nel tempo e nello spazio, anche solo a citarne alcuni: l’opera lirica (o melodramma) è sinonimo di Italia durante almeno tre secoli, da Monteverdi a Puccini, dopo di che arriva l’inevitabile declino sul piano compositivo; lo stesso dicasi per il grande sinfonismo tedesco che coincide con l’epoca romantica ottocentesca, o con il jazz afroamericano, la cui originalità, intesa proprio quale periodo d’oro, dura all’incirca mezzo secolo, andando dai dischi hot di King Oliver (1923) alla svolta free (1958-59) con Cecil Taylor e Ornette Coleman.

E qui si pone, forse doverosa, una brevissima divagazione sull’argomento: nell’iter plurimillenario della civiltà umana, esiste appunto un periodo d’oro non solo per la musica, ma soprattutto in ogni specifica forma creativa: per esempio non solo la statuaria greca è quella classica per antonomasia, in particolare riferita a scultori e architetti nell’Atene di Pericle non saranno mai eguagliati, a livello qualitativo, dai pur bravi proseliti della successiva epoca ellenistica. La poesia amorosa italiana giunge al periodo d’oro con il Canzoniere di Francesco Petrarca, che vanterà parecchi imitatori giustamente rinominati petrarchisti, per un fattore di emulazione e non certo di rinnovamento. La pittura di Caravaggio produrrà nel Seicento decine di artisti denominati caravaggeschi senza che nessuno di loro arrivi alle vette del primo artista maledetto della storica. E infine la cultura punk riprende stilemi dada, nichilisti, anarcoidi e musicalmente le garage band di dieci-dodici anni prima.

In conclusione, se si vuole i testi di Donà, Rezzi, Snaidero, Arena e Marino su Beatles, Clapton, Zeppelin, Lennon, Wyatt e Zappa sono piccoli grandi libri che accompagnano l’utile al dilettevole, come direbbe Alessandro Manzoni: dilettevoli perché l’argomento trattato – il rock di grandi artisti – forse è quanto di più bello, inventivo, utopico, irriverente si possa ascoltare nella musica cosiddetta popular; utile in quanto ogni testo spiega e commenta filosoficamente l’opera di personaggi celeberrimi per chi oggi vive gli anni Sessanta (e Settanta) di questo rock come qualcosa di remoto, lontano, superato; ma la soavità e la potenza a livello espressivo della colonna sonora di un’epoca tormentata, pur senza essere testimone oculare e in questo caso pure uditivo, vive trasversalmente nel fruitore di oggi adolescente, adulto, anziano magari anche con il supporto delle immagini audiovisive, di qualche singolo (45 giri) soprattutto dei dischi long playing a 33 giri (i mitici padelloni) decine e decine, fra concerti, trasmissioni, brani, album, in un turbinio di note, refrain, assolo, ritornelli. Forse

È proprio la filosofia a far sì che questi nomi (musicisti, album, canzoni) siano qualcosa mai finito nel dimenticatoio, anzi restano destinati a rimanere forse gli ultimi importanti ‘classici’ nella storia dell’umanità. Il rock degli anni Sessanta in particolare di Beatles, Clapton, Zeppelin, Lennon, Wyatt e Zappa – senza nulla togliere a Jimi Hendrix, Bob Dylan, i Doors, i Rolling Stones, i Jefferson Airplane, di cui peraltro devono ancora essere scritti i ‘libri filosofici’ – identifica alla fine davvero il quid di un lungo controverso decennio, i favolosi utopici Sixties (o Anni Sessanta), come un’età aurea.

--- filosofia dei beatles

Massimo Donà, La filosofia dei Beatles
Con la pura potenza dell’immaginazione, reinventando e ponendo le basi di un nuovo evo,colorato, utopistico, capace di un sincretismo radicale, i Beatles hanno cambiato per sempre non soltanto la musica,ma anche i costumi e la visione di intere generazioni”.

Alberto Rezzi, La filosofia di Eric Clapton. Il blues come sapere dell’anima
“Dall’esperienza con i Cream alla gloriosa carriera solista… uno dei chitarristi rock-blues più importanti di sempre… una filosofia multiforme, masi definitiva, ma comunque potentemente ancora al messaggio”.

Tiberio Snaidero, La filosofia dei Led Zeppelin. Edonismo vitalista e volontà di potenza
“Psichedelici, mistici, onirici…Splendido paradosso rappresentato dalla band britannica che è stata percepita come gruppo d’avanguardia, mentre allo stesso tempo spazzava via tutti i record di vendita dei dischi e delle presenze ai concerti”.

--- la filosofia di John Lennon

Leonardo Vittorio Arena, La filosofia di John Lennon. Rock e rivoluzione dello spirito
Un musicista rock, certo, ma anche un filosofo del nostro tempo che inneggiò alla rivoluzione culturale e compose canzoni diventate simbolo del movimento pacifista. Un personaggio provocatorio (…) dotato di una forte propensione alla spiritualità”. 

--- la filosofia di Wyatt

Leonardo Vittorio Arena, La filosofia di Robert Wyatt. Dadaismo e voce: unlimited
“Una voce unica, in apparenza triste, anche se Wyatt non si considera affatto una persona triste. La voce di un elfo, che proviene da spazi siderali, medievali, come omaggio alle folk songs che ascoltava da bambino”.

--- la filosofia di Zappa

Stefano Marino, La filosofia di Frank Zappa. Un’interpretazione adorniana
“Figura carismatica, incisiva e poliedrica come poche altre, capace di esprimersi ai massimi livelli come ‘guitar hero’, critico ironico della società americana e, soprattutto,compositore fra i più grandi del secondo Novecento”.