Osip Mandel’štam

“È spaventoso. Da un quarto di secolo, mescolando nel corso della mia navigazione cose serie e inezie, urto contro la poesia russa. Ma presto i miei versi si fonderanno con lei – con la poesia russa – e in lei si dissolveranno, modificandone in parte la struttura e la composizione.”

Osip Ėmil’evič Mandel’štam (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938), esponente di spicco dell’acmeismo e vittima delle Grandi purghe staliniane.
Ebreo, si covertì al Cristianesimo metodista.
Le tendenze anticonfromiste e di critica al sistema staliniano di Mandel’štam, che pure nei primi anni aveva convintamente aderito al Bolscevismo, deflagrarono nel novembre del 1933, quando compose e diffuse il celebre Epigramma di Stalin.
Nel 1938 fu nuovamente arrestato; condannato ai lavori forzati, trasferito nell’estremità orientale della Siberia. Morì a fine dicembre. 

Viaggiava e studiava, s’innamorava solo di pittrici (spero di non sbagliarmi).

da Ottanta poesie

Guardiamo il bosco e diciamo:

ecco un bosco da navi, da alberi di nave:

conifere rosate

libere fino alla cima dal loro irsuto carico di rami;

sono fatte per mandare scricchiolii nella tempesta

come italici pini solitari

dentro un’aria stizzosa che non è più di bosco;

sotto il tallone salso del vento resisterà l’archipendolo

fissato alla danzante tolda,

e il navigatore,

nella sua indomita brama di spazio,

recando con sé tra gli umidi solchi il fragile strumento

dell’esperto di geometria,

metterà a confronto la scabra superficie marina

con l’attrazione del grembo terrestre.

E inspirando l’odore

delle lacrime di resina che il fasciame trasuda,

ammirando le tavole di legno

inchiodate, connesse in paratie

non dal mite carpentiere di Betlemme, ma da un altro –

il padre dei viaggi, l’amico di colui che va per mare –,

noi diciamo:

s’ergevano anche loro sulla terra

scomoda come la groppa di un asino,

con cime dimentiche delle radici,

là, su un glorioso crinale,

e strepitavano sotto rovesci di acqua dolce

offrendo invano al cielo temporalesco, in cambio d’un

pizzico di sale,

il proprio nobile fardello.

Da dove cominciare?

Tutto crepita e oscilla.

L’aria vibra di similitudini.

Non c’è parola migliore di un’altra;

la terra emette un rombo di metafore,

e leggere bighe,

nella bardatura sgargiante di stormi d’uccelli che lo sforzo

addensa,

fanno di tutto per gareggiare

coi beniamini sbuffanti degli ippodromi.

Tre volte beato chi ospita un nome nella sua canzone;

la canzone che si fregia di un titolo

vive più a lungo delle altre –

e la fa spiccare in mezzo alle compagne una benda sulla

fronte

che la tiene al riparo dai deliquii, da un odore troppo

forte che stordisce –

ne siano causa la vicinanza di un corpo d’uomo

o il pelame di un robusto animale selvatico

o semplicemente poche foglie di timo stropicciate fra le

palme delle mani.

L’aria talvolta è buia come l’acqua, e tutte le creature ci

nuotano dentro come pesci

fendendo con le pinne una sfera compatta,

elastica, intrisa appena di calore, –

una massa cristallina in cui girano ruote e sbandano

cavalli,

umido černozёm di Neera ridissodato ogni notte

con forconi, tridenti, zappe, vomeri.

L’aria ha lo stesso impasto della terra:

non si può uscirne, costa fatica entrarvi.

Un fruscio percorre gli alberi come se li colpisse una verde

mazza di laptà.

Fanciulli giocano a dadi con vertebre di bestie morte.

Il fragile calendario della nostra era si approssima alla fine.

Grazie per ciò ch’è stato:

sì, ho sbagliato, ho smarrito la via, non ho calcolato giusto.

L’era echeggiava come un globo d’oro,

cava, fusa, non sorretta da nessuno;

ad ogni tocco rispondeva con un “sì”, un “no”.

È la risposta di un bimbo che dice:

“Ti do la mela” o “Non ti do la mela”.

E il suo viso è un calco esatto della voce che pronuncia la

frase.

Il suono echeggia ancora, benché ne sia svanita ormai la

fonte.

Il destriero giace bianco di schiuma nella polvere e soffia,

ma il teso arco del suo collo piegato all’indietro

serba ancora memoria della corsa con le zampe lanciate

da ogni parte,

allorché non erano più quattro,

bensì tante quante le pietre della strada,

rinnovate in quattro tempi,

tanti quanti le volte che si stacca da terra il cavallo che va

all’ambio, sprigionando calore.

Così

chi trova un ferro di cavallo

ne soffia via la polvere

e lo sfrega con lana finché non torna a splendere;

allora

l’appende sopra la soglia

perché abbia quiete,

ché non dovrà più far scoccare scintille dalle selci.

Labbra umane

che non hanno più nulla da dire

conservano la forma dell’ultima parola che hanno detto,

e nella mano resta la sensazione del peso

anche se la brocca

s’è a mezzo svuotata

mentre la si portava verso casa.

Quel che ora dico non sono io a dirlo,

ma è riesumato come chicchi fossili di grano.

Certuni

sulle monete imprimono un leone,

altri

una testa;

pasticche eterogenee di rame, oro, bronzo

riposano con uguali onori sottoterra.

L’epoca, tentando di spezzarle, vi ha inciso i propri denti.

Il tempo mi assottiglia come una moneta,

e a me stesso più non basto ormai

 



 

ulteriore approfondimento nella rubrica L’immagine persistente, Osip Mandel’štam