Bill Evans. Vita e morte con Bill Evans

Il libro di Laurie Verchomin sul grande pianista jazz

 a cura di Guido Michelone

Sta ormai diventando prassi comune – nel jazz – scrivere biografie da parte delle mogli ( o compagne) di grandi musicisti post mortem, come ad esempio le vedove di Charles Mingus, Dexter Gordon, Gerry Mulligan. Anche per Bill Evans, una più o meno nota poetessa canadese, Laurie Verchomin, oggi sessantaseienne, dà alle stampe nel 2010 The Big Love (sottotitolo Live and Death with Bill Evans), che resta sino a oggi l’unico libro da lei pubblicato e in Italia tradotto da Flavio Erra per Minimum Fax Edizioni nel 2021 con lo stesso titolo: Il grande amore vita e morte di Bill Evans.

Il volume, a mo’ di diario, con un po’ di foto, disegni e pagine autografe, inizia il 15 settembre 1980 a New York, quando Laurie, allora poco più che ventenne, conduce il pianista dal proprio appartamento – nella Whiteman House sulla Lester Avenue a Fort Lee paesino (del New Jersey) – al Mont Sinai Hospital: partono sulla Chevrolet Monte Carlo dello stesso Evans con il fido batterista Joe La Barbera al volante: poco prima dell’arrivo, Bill inizia a perdere molto sangue dalla bocca e a nulla può l’urgente immediato ricovero in una sala operatoria, da dove esce un giovane medico che, laconicamente, comunica ai due le seguenti scarne parole: “Non siamo riusciti a salvarlo”. Joe inizia a fare telefonate sia a Marc Johnson il contrabbassista facente parte dell’ultimo fantastico Bill Evans Trio, sia alla manager del pianista, Helen Keane, la quale intima alla Verchomin di lasciare subito l’appartamento senza toccare nulla: riuscirà a portarsi via solo alcune stampe giapponesi, regalo di Bill, e gli appunti del libro in procinto di scrivere.

Poi Il grande amore prosegue a ritroso dal luglio 1977 a Edmonton, città canadese di circa un milione di abitanti, dove vive Laurie da hippy un po’ ribelle, ancora indecisa sul da farsi a livello esistenziale, benché nutra parecchie velleità artistiche, frequentando scrittori e jazzmen in erba, oltre seguire diversi corsi di musica e di teatro.

E il primo incontro fra Laurie e Bill avviene nell’aprile 1979 proprio ad Edmonton alla fine del concerto del pianista, il quale inizia un corteggiamento fatto di lettere scritte a mano, di telefonate e inviti a raggiungerlo negli Stati Uniti. Nascerà così, poco poco, una vera love story, tanto breve quanto intensa: Evans è sposato da anni con un figlio e una figliastra a carico, sistemati con la mamma in campagna, dove ricevono visite pattuite anche molto cordiali, una volta pure con Laurie, la quale scrive quindi di essere ben consapevole del ruolo di ‘amante’ seria, nonostante le voci di qualche maligno, a indicarla come una delle tante ragazze ‘usa e getta’ di Bill.

Pur masticando abbastanza bene il linguaggio delle sette note, la Verchomin non parla nel volume, di questioni musicali e nemmeno di critica in merito alla carriera di Evans, limitandosi a descrivere l’emozione di qualche concerto e, in primis, gli aspetti di un tran-tran giornaliero sicuramente anomalo nei confronti dei comuni mortali; la quotidianità di coppia è surclassata dalla prassi artistica, con il pianista descritto come un performer dedito al “meglio di sé” dal vivo anche in situazioni precarie come quelle tipicamente americane in localacci più vicine al pianobar che agli auditorium; tanto negli spazi anonimi quanto nei jazzclub più prestigiosi Bill è sempre concentrato sull’improvvisazione e nell’interplay con la ritmica di Johnson e La Barbera. Laurie si sofferma altresì sugli ascolti discografici eterogenei del grande amore, oppure assorto a comporre nuovi brani sul piano a coda di casa (quello elettrico verrà venduto a Cedar Walton poco prima di morire).

Nelle pagine della Verchomin c’è persino molto eros quando descrive le vicende intime fra i due protagonisti a letto, con dovizia di particolari, ma c’è purtroppo evidente (ed evidenziato) il dramma della tossicità: uscito dall’eroina nel decennio precedente, Evans fa ora della cocaina un uso spropositato iniettandosela in ogni parte del corpo e procurandosi ferite, cancrene e lacerazioni, a cui nemmeno una preoccupata Laurie riesce a far fronte, cadendo ella stessa nel turbine delle sniffate (all’epoca prassi comune, assieme alle canne, a tutti gli artisti statunitensi, senza distinzioni di sesso, razza, religione, ceto sociale). Sebbene Evans frequenti uno psichiatra, adoperi il metadone, manifesti consapevolezza verso il problema, l’agenda di Bill, come quella di tanti altri jazzmen (come l’amico trombettista Chet Baker), sembra giornalmente scandita tra ricerca di soldi in contanti e indirizzi di spacciatori dai quali rifornirsi, sino a quando, forse a causa di un’overdose – Bill si chiude quotidianamente in bagno per ore a farsi – passerà a miglior vita lasciando il mondo del jazz orfano di un genio, troppo presto salito al cielo.

In conclusione, se proprio occorre trovare un difetto a Il grande amore è la mancanza di citazione degli album straordinari incisi dal pianista dal 1956 al 1980, ragion per cui sembra lecito terminare ricordando LP come New Jazz Concetions, Portrait In Jazz, Sunday At The Village Vanguard, Waltz For Debby, Undercurrent, Trio ’64, Quintessence, Affinity quali capolavori assoluti dell’intero Novecento.

Il grande amore. Vita e morte con Bill Evans, di Laurie Verchomin, minimum fax ed., 2021