Eravamo il suono di Auschwitz

Il romanzo di Matteo Corradini

a cura di Guido Michelone

Matteo Corradini, ebraista, ricercatore di storia della Shoa – di cui recupera fonti primarie e secondarie, ossia racconti, oggetti, strumenti musicali – scrive ora un  romanzo per ragazzi (in verità adatto a ogni età) dal titolo Eravamo il suono (Lapis edizioni, Roma 2024) in cui narra le vicende dell’Orchestra Femminile di Auschwitz – in tedesco Mädchenorchester von Auschwitz – facendo parlare otto delle musiciste coinvolte, per un totale di cinquantatre orchestrali più tre direttrici a turno, in un arco di tempo che va dall’aprile 1943 all’ottobre 1944 in quanto ad attività. La vicenda storica è inframmezzata dalla cronaca di un’immaginaria messinscena in una scuola media italiana dove le ragazzine, sotto la guida di un’esperta insegnante, intendono rappresentare le artiste ‘vittime’ e al contempo ‘protagoniste’ dell’Olocausto, con l’idea che la musica sia più forte della violenza nazista, ieri come oggi. Eravamo il suono reinventa i pensieri, i dialoghi, le opinioni, le confidenze tra le ‘carcerate’ che hanno il privilegio di salvarsi melodicamente ‘allietando’ al mattino e alla sera i lavoratori che escono dal campo per andare in fabbrica, ma talvolta esibendosi persino per gli ufficiali delle SS e spesso (benché il libro soprassieda) venendo sadicamente proposte nei momenti in cui gli Ebrei vengono condotti alle camere a gas e poi ai forni crematori.

Alla fine del romanzo Corradini inserisce veloci biografie delle musiciste – oltre l’elenco delle partecipanti – e nove titoli di saggi che, negli ultimi vent’anni, trattano l’argomento rimosso per molti, troppi decenni. Ma a questo punto sembra doveroso approfondire maggiormente la tematica, per meglio apprezzare un libro che comunque andrebbe letto in ogni tipo di scuola. L’orchestra femminile di Auschwitz viene dunque costituita nella primavera del 1943 per ordine del potere nazista, selezionando in particolare le giovani prigioniere di nazionalità differenti: non figurano italiane, ma donne provenienti da Polonia, Germania, Francia, Belgio e in misura minore da Austria, Ucraina, Grecia, Cecoslovacchia, Russia, Romania, Ungheria Olanda. A queste suonatrici via via di chitarra, contrabbasso, fisarmonica, flauto dolce e traverso, mandolino, percussioni, pianoforte, violino, violoncello, xilofono e canto viene risparmiato il lavoro regolare del campo (di solito faticoso e umiliante) onde procedere a trascrivere ed eseguire musica classica e sovente popolare, in quanto l’arte delle sette note viene ritenuto dagli ufficiali come ‘utile’ nella gestione quotidiana del lager medesimo.

La Mädchenorchester von Auschwitz risulta un progetto della SS-Oberaufseherin (“Osservatore Avanzato delle SS”) a cura della spietata Maria Mandel, una sorvegliante austriaca che verrà poi, nel 1948, processata e giustiziata grazie al Primo Processo di Auschwitz in Polonia. La Mandel offre quindi ai superiori i tedeschi il desiderato strumento propagandistico per i rari visitatori ammessi (la Croce Rossa internazionale), per i cinegiornali tedeschi a indorare la pillola (e nascondere l’infamia) e per la vita quotidiana nel campo con la malsana intenzione di tenere alto il morale. All’inizio l’ensemble viene diretto dalla partigiana polacca Zofia Czajkowska, insegnante di musica, che fatica a provare essendo i ranghi ancora ridotti, almeno fino al maggio successivo, quando sono ammesse le musiciste ebree. Soliste, cantanti e accompagnatrici dalle nazionalità diverse, come del resto gli internati di Auschwitz, all’iniziano faticano a comprendersi non solo per la lingua ma per la qualità delle esperienze professionali ripartite fra insigni concertiste e incaute dilettanti.

Già a cominciare da giugno l’orchestra – che rifiuta orgogliosamente il nomignolo di ‘orchestrina’ appioppatole da qualche soldataccio – ha il compito di posizionarsi davanti al cancello ed eseguire brani celebri, orecchiabili, talvolta romantici spesso per ore e ore a qualsiasi condizione climatica, ripetendosi nei week end per le bizzarre cerimonie delle SS medesime. Ulteriori incarichi riguardano i concertini in infermeria, per i prigionieri ricoverati, oppure in occasione dei nuovi arrivi o delle terribili selezioni, che, come ben si sa, riguardano una questione di vita o di morte.

L’esistenza dell’orchestra procede a tentoni per svariate ragioni: agli inizi la maggioranza di suonatrici autodidatte, con solo una sezione di archi, più un mandolino e qualche fisarmonica (dunque senza bassi) limita alquanto il repertorio, nonostante l’arrivo di strumenti validi e di spartiti leggibili, il tutto recuperato dall’orchestra maschile nel campo principale di Auschwitz. Ma le scelte musicali in principio sono altresì ridotte per almeno tre fattori: la quantità di mezzi (spartiti e strumenti non sono numerosi), la preparazione della direttrice d’orchestra, le insistenti richieste delle stesse SS; e questo spiega la presenza sia di marcette tedesche sia di canzoni militari di origine polacca che la Czajkowska conosce a memoria. Giungono tuttavia, a migliorare la situazione, due musiciste professioniste come la violoncellista Anita Lasker-Wallfisch e la cantante/pianista Fania Fénelon, mentre già nell’agosto 1943 la Czajkowska viene sostituita, nel ruolo di caporchestra, da Alma Rosé, nipote di Gustav Mahler, già direttrice di una formazione rosa a Vienna, sua città natale.

La Rosé, molto più esperta, colta e sofisticata rispetto alla maggior parte delle adolescenti con le quali opera, fa comunque affidamento sulla Czajkowska per le traduzioni dal polacco al tedesco, benché non le manchi l’intraprendenza tipica dell’artista evoluta e indipendente; Alma infatti dirige, arrangia e talvolta suona assolo di violino durante i concerti; e nei rari momenti liberi, oltre l’attività ufficiale, prova con l’orchestra alcuni pezzi di Entartete Musik (‘musica degenerata’ dunque proibita e perseguitata  dai nazisti) da compositori ebrei o polacchi onde favorire uno spirito democratico e patriottico delle orchestrali che, a loro volta, si fidano di lei ciecamente. La Rosé piace inoltre a molti ufficiali per il modo di condurre l’orchestra e viene perciò invitata a una cena ufficiale di soli tedeschi, dove decide di partecipare spinta dalla fame endemica (diffusa fra tutti i prigionieri, nonostante il trattamento verso le musiciste sia migliore anche per quanto riguarda il cibo); ma a fine pasto muore all’improvviso: non viene fatta l’autopsia ma, in seguito, nel campo e a guerra finita, emerge l’ipotesi di intossicazione alimentare, causata da avvelenamento da parte della moglie gelosa di un nazista. Alma lascia un vuoto artistico, sebbene venga nominata nel dirigere l’orchestra la russa Sonia Vinogradova, la quale, stando alle testimonianze postume, lavora un po’ a casaccio, forse presagendo la fine quasi imminente dell’orchestra medesima.

Infatti, da un lato il 1º novembre 1944 le orchestrali ebree vengono evacuate su un camion per il bestiame da Auschwitz a Bergen-Belsen, dove non vi sono né orchestra né privilegi. Dall’altro lato il 18 gennaio 1945 le musiciste non ebree (tra cui molte polacche) vengono spostate a Ravensbrück, a pochi giorni dallo smantellamento di Auschwitz con il rimanente dell’orchestra inviato ancora a Bergen-Belsen, dove, subito dopo, muoiono Lola Kroner e Ioulia Stroumsa, forse per stenti o malattia; tutte le altre riescono a sopravvivere nonostante le percosse inferte a Ewa Stojowska e il tifo che mina la salute di Fania Fénelon, la quale guarisce, scrivendo poi nell’autobiografia Ad Auschwitz c’era l’orchestra e proprio l’orchestra avrebbe dovuto essere uccisa a colpi d’arma da fuoco dalle truppe britanniche lo stesso giorno della liberazione; ma nel giorno della liberazione la Fénelon viene intervistata dalla BBC e invitata a suonare: sceglie la “La Marseillaise” e “God Save the King”; muore nel 1983 a 75 anni non senza vedere il proprio libro portato a teatro dal grande drammaturgo statunitense Arthur Miller e non senza disapprovare il film a lei ispirato con un personaggio assai poco attendibile (pur nella valida interpretazione dell’attrice inglese Vanessa Redgrave).

Va ricordato infine che l’unica rimasta oggi è la violoncellista Anita Lasker-Wallfisch, la quale rammenta il Träumerei di Robert Schumann da lei suonato per il famigerato Josef Mengele (esperimenti sui bambini), che riuscirà a fuggire in Brasile, dove morirà cadendo da una roccia; la Lasker oggi 99enne, dopo qualche anno in Belgio si stabilisce a Londra dove fonda la English Chamber Orchestra con cui suona fino al 1999, mentre nel 1994 torna per la prima volta in Germania per una tournée. Per le altre, raccontate nel libro di Corradini, Helena Dunicz, Esther Loewy, Claire Monis, Violette Silberstein, Helen ‘Zippi’ Spitzer la musica resta la compagna di vita anche dopo l’inferno di Auschwitz.