Recensioni
L’amore di Leonard Cohen
Note al romanzo Dance me to the end of love
a cura di Guido Michelone
Sul finire degli anni Settanta, Leonard Cohen viene intervistato da un giornalista sprovveduto che sciorina così tante banalità da annoiare, disturbare, irritare il cantautore, il quale, però, ha un repentino sussulto quando gli viene chiesto, passando di palo in frasca: “Mai lei soffre molto?”. Esclama quasi contento: “Ecco, finalmente una domanda interessante”. E da lì in poi l’intervistato riesce mediaticamente a esprimere se stesso, quasi filosofeggiante sull’esistenza umana e di conseguenza sul senso ultimo della vita medesima. In quel botta-e-risposta c’è già tutto il Leonard Cohen, il folksinger appunto di una sofferenza coniugata a una spinta creativa originalissima, a sua volta esternata in un’attività sia letteraria sia musicale, senza precedenti e senza che vi sia nessuno ancor oggi a contendergli lo scettro di scrittore ‘prestato’ alla pop music (e anche viceversa): di certo una rock star meritevole del Premio Nobel, assai più di Bob Dylan dal punto di vista strettamente letterario, sebbene l’impatto di quest’ultimo sui trend giovanili e sul costume sociale risulti di gran lunga superiore, in particolare nell’ottica sociologica.
Detto questo, dopo la morte di Cohen – avvenuta il 7 novembre 2016 a Los Angeles, 82enne nascendo il 21 settembre 1934 a Montréal – in tutto il mondo si inizia a studiarne l’opera variegata, riconoscendone sempre più il valore estetico e la singolarità espressiva. E fra i recenti contributi c’è anche quello del celebre scrittore francese Maxence Fermine (nato ad Albertville il 17 marzo 1968) che, dopo una ventina di libri – con il successo anche italiano di Neve (1999) e Il labirinto del tempo (2006) – grazie al romanzo breve Dance Me To The End Of Love (titolo in inglese nell’originale, mantenuto anche nella traduzione di Roberta Castoldi) aggiunge un ulteriore tassello alla (ri)-scoperta del geniale canadese, descrivendolo in una prospettiva inedita, ovvero nel rapporto sentimentale con la norvegese Marianne Ihlen, che per alcuni anni è la sua campagna, ma che, nella prospettiva di Fermine, è la musa ispiratrice, alla quale sarà legato fino alla morte, pur rinunciando a rivedersi subito dopo l’allontanamento definitivo.
La love story tra lui e lei nasce sull’isola greca di Hydra dove Cohen si reca per trovare la pace e il tempo per scrivere il suo primo libro di poesie, divenuto poi The Spice-Box of Earth: lei, fotomodella e attrice, con figlio piccolo e marito ricco, stravagante personaggio dello show business norvegese. Innamoratosi a prima vista, Leonard ha quasi paura a avvicinare la bionda sportiva e affascinante e per mesi c’è solo una passione frenata, quasi platonica, sino a quando Marianna decide di lasciare il marito in preda alla follia e all’alcolismo. La concreta relazione amorosa tra Cohen e la Ihlen comincia nel momento in cui inizia il di lui precario successo letterario: The Spice-Box of Earth (Le spezie della terra, tradotto solo nel 2010) viene pubblicato nel 1961 ottenendo, in Canada, ampi successi di pubblico e di critica in anni in cui i libri di poesia si vendono e si leggono ancora: di conseguenza l’autore viene sia pagato nei reading, sia contattato per pubblicare un romanzo. Benché oggi sia pienamente valorizzato, The Favourite Game (Il gioco favorito, 1963, ma in Italia 1975), all’epoca, passa quasi in osservato o comunque ben al di sotto delle aspettative di Leonard, il quale decide quindi di ripetersi con un secondo libro di poesie, Flowers for Hitler (1964), pensando di ripetere l’exploit del primo; ma anche in questo caso l’accoglienza è tiepida, perché da un lato il titolo non funziona (benché sia estraneo al nazismo) e dall’altro, soprattutto, stanno cambiando i gusti e di conseguenza diminuiscono i fruitori di poesia scritta a favore di quella ‘cantata’ dei folksinger.
Preso ormai da furore letterario, Cohen si concentra sul secondo romanzo, scrivendo a volte per venti ore consecutive, trovando diversi stupefacenti per migliorare l’ispirazione, fino a pubblicare Beautiful Losers (1966, Belli e perdenti nel 1972): sono anche anni, nel decisivo quadriennio fra il 1962 e il 1965, di frequenti viaggi a Mointréal, New York, Hydra, quasi sempre in compagnia di Marianne, la quale, a un certo punto, annoiata del ruolo di madre e di amante/compagna di un uomo in cerca di consenso come artista, decide di far ritorno nella nativa Oslo, da cui non si sposterà più. La donna rivedrà l’uomo della sua vita da lontano, immersa tra la folla entusiasta, durante il concerto che il cantautore tiene nella capitale norvegese durante l’ultima tournée 2010 della lunga altalenante carriera: né l’uno né l’altra osano incontrarsi, ma lei versa fiumi di lacrime quando lui le dedica il brano So Long Marianne scritta apposta per lei nel lontano 1966: l’amore di Leonard Cohen, nata il 18 maggio 1935 a Larkollen, morirà a Oslo il 16 luglio 2019 pochi mesi prima di lui.
Tornando indietro, come farà dunque Leonard Cohen a diventare appunto Leonard Cohen dopo quattro libri di dubbio successo? È merito di lei fargli notare che, canticchiando alcuni versi, lui potrebbe trasformarli in canzoni; egli accetta la sfida e un giorno, per caso, a New York City, dove frequenta il giro dei musicisti alternativi, fa ascoltare alla cantautrice Judy Collins, in procinto di registrare il sesto album, tre brani, fra cui Suzanne, che la nota interprete éngagé non si lascia sfuggire. Dalla versione della Collins scaturirà la proposta di una major a Cohen per incidere un intero album, che sarà ovviamente The Songs of Leonard Cohen (1968). Da allora fino al 1991 è un susseguirsi di exploit, tra album sapientemente centellinati – Songs from a Room, Songs of Love and Hate, New Skin for the Old Ceremony, Death of a Ladies’ Man, Recent Songs, Various Positions, I’m Your Man, The Future – che gli permettono di essere ricco e famoso, senza però goderne a fondo: sono anche gli anni del baratroo dell’alcol e delle droghe, secondo Fermine, per combattere stati depressivi e malesseri esistenziali, a causa dell’amore mai più ritrovato.
Nel romanzo di Maxence, infatti, la figura di Marianne risulta ogni giorno nei pensieri di Leonard, persino quando, ormai vicino all’autodistruzione, decide di consegnarsi a un monastero zen per tentare una via salvifica: sono anni di silenzio, interrotti solo dalle passeggiate e dalle meditazioni con un anziano monaco (ex tossico redento). Tuttavia neanche il buddhismo giova all’irrequietezza di un uomo all’apparenza calmo, tranquillo, serafico, classicamente vestito, invecchiato nei tratti, ma non nello spirito artistico, tanto da registrare, dopo dieci anni inattivi altri sei album –Ten New Songs, Dear Heather, Old Ideas, Popular Problems, You Want It Darker, Thanks for the Dance – e addirittura due brani con il quartetto rock irlandese U2. Fermine in Dance me to the end of love forse abbonda, come nel suo stile, di una prosa lirica eccessivamente simbolista, anche se nei frammenti prettamente biografici riesce a cogliere nel segno, come quando, a proposito del rapporto tra Leonard e Marianne, verso l’epilogo scrive: “L’unica cosa ingombrante da portare con sé è il peso dei ricordi. Il peso del loro amore”.
E per finire degnamente: “L’ho iniziata in Aylmer Street a Montréal e l’ho finita circa un anno dopo al Chelsea Hotel di New York. Non pensavo di dire addio, ma immagino di sì. Mi ha dato molte canzoni e ha dato canzoni anche ad altri. Lei è una musa. Molte persone che conosco pensano che non ci sia niente di più importante che creare una canzone. Fortunatamente, questa convinzione emerge di rado nei loro discorsi con me”. Leonard Cohen a proposito di So Long Marianne, che inizia con Sporgiti alla finestra, piccola mia / mi piacerebbe leggere la tua mano. / Ho sempre pensato di essere uno spirito libero / prima di lasciarmi condurre a casa da te. / E allora a presto Marianne, è ora di cominciare
a ridere e piangere / e piangere e ridere di tutto ancora una volta.
Chissà se Maxence Firmine penserà al giornalista sprovveduto che gli domanda: “Mai lei soffre molto?”.
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