L’uomo che pesca, Imre Oravecz

a cura di Giuseppe Rizza

In una edizione decisamente ben curata, e che vede la traduzione dall’ungherese della nota sociolinguista Vera Gheno, e una appassionata introduzione di Vanni Santoni, è uscita ancora per edizioni Anfora, una nuova opera di Imre Oravecz, precedentemente pubblicato (con Settembre 1972) dalla stessa casa editrice. Ma se in Settembre 1972 l’opera di Oravecz era un romanzo, questo L’uomo che pesca, è un romanzo in versi (o un lungo poemetto). Lo stesso sottotitolo infatti recita: Frammenti per un romanzo. Eppure è composto della stessa materia lirica. Se nella sua prima opera edita in Italia (sempre per la traduzione di Vera Gheno) la forma utilizzata era il romanzo, e in quest’ultima la scrittura in versi, permane in entrambe le opere una scrittura fortemente lirica e contaminata, dove prosa e poesia si influenzano e si contaminano come due animali che riproducendosi creano un nuovo incrocio.

L’uomo che pesca è composto da brevi pagine in cui l’autore racconta in maniera allo stesso tempo visionaria e realistica la vita quotidiana, con le sue miserie e i suoi slanci vitalistici, del proprio villaggio d’origine, Szajla.

L’ambientazione e la struttura potrebbe avere un che di vagamente riferito all’Antologia di Spoon River, dove ogni persona ha uno spazio lirico a lui destinato, ma in realtà la qualità della scrittura e la padronanza dei versi, costruiscono un impianto nettamente differente rispetto a quella dell’autore statunitense.

Qui la vita narrata è quella degli anni ’50 e ’60 in cui i contadini ungheresi e gli abitanti del villaggio sono mossi da sentimenti talmente paradigmatici da essere resi universalmente riconosciuti dal genere umano di ogni latitudine, ma è evidente allo stesso tempo la stratificazione geografica del microcosmo dell’autore (che a distanza di anni decide di ritornare ad abitare nel proprio luogo di origine) che rende del tutto unica, nonché personale e autorevole allo stesso tempo la visione locale di un fenomeno naturale come il trascorrere quotidiano dell’esistenza umana.

Se “Settembre 1972” era la cartografia di un amore da ricomporre come tessere di un mosaico (non sapevamo per quanto avessimo dormito, un giorno, un mese o un anno, ci accorgemmo solo che, appena svegli, ubbidendo al desiderio da prima risvegliato, facevamo di nuovo l’amore), “L’uomo che pesca” è un affastellare di ricordi che compongono cumuli nella memoria che allo stesso tempo ostruiscono il presente, e lo fanno ardere (non mi dimenticavo di niente, mi soffermavo su tutte le cose rilevanti e irrilevanti, niente andava perduto, non c’erano elementi di disturbo, rumore, mortificazione o fraintendimento, non nasceva senso di mancanza).

In “L’uomo che pesca”, troviamo Olga monologare col suo ragazzo mentre fa l’amore cercando di indirizzarlo al meglio su come usare il suo sesso ([…] ecco, così, / fin qui va bene, / no, non più, / ti sei perso di nuovo/), o ancora una voce esterna che ci racconta come funziona a Szajla (tutti avevano due cognomi,/ uno normale e un soprannome), con un tono che utilizza tutte le sfumature dal ruvido al delicato, e uno stile pronto a dare dignità a tutto ciò che è apparentemente minimo, privo di importanza solo a uno sguardo distratto, come accade in certe rilucenti poesie di Raffaello Baldini nel racconto della sua Sant’Arcangelo di Romagna.

 

link Patreon all’audiobook letto dal recensore: Olga, Imre Oravecz | Nessuno – Monologhi a se stessi 

 

L’uomo che pesca, Imre Oravecz, Anfora ed. 2023

TRADUZIONE DI VERA GHENO

INTRODUZIONE DI VANNI SANTONI