Ruth n.2

a cura di Cristina Basile 

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Ruth se ne stava sul suo bureau di legno chiaro. Fluido e scivoloso com’era, se non le avessero detto provenire da un faggio, avrebbe creduto fosse fatto di miele. Ancora una volta si ritrovava incollata alla sedia, a sforare l’orario di lavoro. Con la mano si reggeva la testa, piena di lisci capelli neri. Sarebbe stato bello uscire in orario ma proprio non ci riusciva. Remava contro le sue pulsioni con diligenza agonistica Ruth, la stessa con cui da bambina rifaceva prima la sua cartella, poi quella dei compagni più lenti. E pensare che venticinque anni dopo le cose non erano molto cambiate. Non c’era neanche più bisogno che si offrisse di aiutarli, i colleghi, poiché questi venivano spontaneamente da lei dicendole di classificare, firmare, archiviare le loro carte: le tendenze servili della ragazze erano diventate un lavoro ed era tout à fait normale che lei ubbidisse.

Dopo gli studi in storia dell’arte, non aveva trovato nulla di interessante nel suo ambito, così aveva risposto ad un annuncio apparso sul giornale ed una settimana dopo era stata assunta come segretaria presso un ufficio di avvocati. Qui, contre toutes attentes, aveva fatto faville. Le qualità fondamentali richieste erano la precisione, il rispetto della gerarchia ma soprattutto la protezione dei segreti altrui. Ruth faceva tutto così bene che, dopo 5 anni, poco prima di uscire per andare a casa, qualcuno la bloccava e riversava sul suo bureau di legno chiaro i resoconti delle liti col coniuge o col capo, fiducioso che la ragazza avrebbe tenuto il cece in bocca così bene come faceva in ufficio.

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Tutti quelli che aveva intorno avevano fatto almeno una volta un burn-out (specie botanica di esaurimento contemporaneo), tranne lei che guardava tutto freddamente e ascoltava. Tuttavia c’era qualcosa che sfuggiva a tutti quelli che, inginocchiati al suo tavolo, giocavano ai peccatori in cerca del sollievo dell’assoluzione: Ruth era ambiziosa e nascondeva le briciole della sua vanità in uno dei cassetti del bureau di faggio e miele, insieme alla cipria quasi finita, compattata in palline iridescenti, nel cassetto in basso a destra. Dentro quei cassetti covava tutti i suoi desideri. Che forma avesse questa vanità e come voleva che deflagrasse un giorno nel mondo, non lo sapeva neanche lei, ma ne sentiva la presenza se qualcuno si metteva a ballare forsennatamente per strada o si faceva largo tra la folla, incurante di quelli che cadevano per farlo passare.

Tra lei e gli eccentrici c’erano risonanze grosse come quelle delle campane.

Innaffiava le speranze di nascosto Ruth, fino a che un collega non entrava con una delle sue paturnie, obbligandola a richiudere velocemente tutti cassetti e a rimettere la sua espressione da niente, la sua maschera preferita.
Le sarebbe piaciuto licenziarsi, avvicinarsi al tipo di persona chiassosa che corre tra la folla, ma nessuno le aveva insegnato come fare. Solo all’idea sentiva una bacchettata sulla mano.

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Gli anni passarono e Ruth rimase una segretaria volitiva e tesa, china sulle carte che arrivavano ancora e ancora nelle braccia dei colleghi. Nel frattempo, nella credenza di casa si erano arenate una collezione di forchettine pieghevoli nuova di zecca e nell’armadio un tailleur per ogni giorno della settimana, ricompensa sbagliata che chiudeva i movimenti di apertura del corpo, esattamente come
un cassetto del bureau di faggio e miele.

La testa pesa ancora oggi, fa male e la voglia di cambiare lavoro pare alla donna l’unica scappatoia per ottenere un cervello diverso, scrigno per altri ricordi. Le immagini premono e creano un guardaroba impeccabile e una montagna di rabbia. Eppure, guardando fuori dalla finestra, pensando ad un’alternativa, Ruth non vede altro che milioni di lavori che si rassomigliano e che hanno in comune quella maledetta segretezza.

D’altronde chi meglio di una che si nasconde da tutta la vita, conosce il valore dei segreti degli  altri?