Recensioni
Smother – Wild Beasts
a cura di Laura Bentivoglio
Struttura rock di base, influenze elettroniche, un intricato fraseggio, liriche complicate da un linguaggio obliquo. Un acquisto del genere può comportare minuti di ascolto imbambolato e probabilmente sentirete usurpata quell’irrinunciabile oretta della vostra vita, anche per la noia mortale di alcune note, ma c’è qualcosa che possiede l’attrattiva necessaria affinché riesca ad emergere sulla vostra faccia un sorriso impercettibile ma soddisfatto.
Chi è aperto alle proposte può vagare tra i suoni, scoprire le proprie preferenze e trovare l’identità di base di questo disco in relazione alle proprie ossessioni. Anche se un’identità, a dire il vero, questo album uscito il 9 maggio, ce l’ha già. ‘Smother’ è il titolo, che letteralmente vuol dire soffocare. Ascoltandolo vi vedrete restituire le sfumature giuste di questo verbo nelle sue analogie: “togliere il respiro”, “mozzare il fiato”. Le istruzioni sono le seguenti: se cercate qualcosa tra i suoi dieci brani troverete qualcos’altro. Una nostalgica struttura carnale, forse. Un’aperta frammentazione del desiderio, forse. Un mormorio perduto e l’innalzarsi di un’eccitazione che approderà inevitabilmente al silenzio.
La sessualità come idea assillante è sempre ben stagliata negli argomenti di queste selvagge bestiole da spartito che hanno il pregio di saper suonare con un sottile calore, tale da disseppellire la brace sotto la vostra superficie, dando il via ad un pulsare ad ondate sulle cui creste si aggrapperanno suoni, parole, fascinazioni e, soprattutto, smarrimento: ciò che lascia interdetti, come se vi avessero sedotti con una frase sola, sussurrata, quasi dissimulata.
La musica degli Wild Beasts, chi ha già ascoltato lo scorso ‘Two Dancers’ lo sa, è fatta di pochi elementi, sempre quelli che ritornano, e né loro cercano di aggiungerne altri, ma sono le variazioni su quegli elementi che danno le vertigini. E l’equilibrio è possibile perderlo a causa delle particolarissime voci alternate di Hayden Thorpe e Tom Fleming – quasi una disputa, e così intensa che ogni particella nell’aria viene sequestrata da quei due – delle frasi enigmatiche, delle vibrazioni degli inserti acustici di piano, delle percussioni equilibrate, delle sospensioni numerose al centro di ogni fluire.
Non è un album immediato, nessuno degli album che hanno preceduto Smother lo è mai stato, ma contiene particolari di raffinata bellezza che muovono verso una destinazione precisa. Ci sono versi espliciti come “Aspetto, fino a che non sei frastornata/ resto disteso fin tanto che non sei sfinita/ ti prendo in bocca/ come fa un leone con la sua preda” (Lyon’s Share), ma il più dell’eroticità, della sessualità, poiché è un disco per nulla sensuale, scaturisce da un uso del linguaggio che ama l’allitterazione, la suggestione immaginifica, dal suono che acquisisce una dimensione fisica. E’ un disco che pare attingere a determinate atmosfere che depositano con una certa indolenza, ed Hayden Thorpe ha più volte confessato la sua tendenza ad introdurre citazioni dai suoi libri e film preferiti, e queste referenze letterarie e cinematografiche si muovono liberamente tra Jake Thackray, Henry Miller, Pedro Almodóvar.
Seleziono queste quattro: Plaything, Loop The Loop, Albatross, Reach A Bit Further, perché hanno i suoni più vicini alla visione delle cose di quanto non abbiano le cose stesse, ma sempre sul limite dello sfaldamento; di circa sette minuti c’è anche l’ultimo brano che lascia privi di difese, perché la fine arriva troppo presto, End Come Too Soon, sostiene, come in una sublime sveltina su un treno che sfreccia con determinazione tra le pianure, prima che passi il controllore.
L.B.