L’analfabeta, Ágota Kristóf

“Vengo a sapere dai giornali e dalla televisione che un bambino turco di dieci anni è morto di freddo e di sfinimento, mentre cercava di attraversare clandestinamente il confine svizzero, insieme ai suoi genitori. I «passatori» li avevano lasciati vicino al confine. Loro dovevano soltanto camminare sempre diritto fino al primo villaggio svizzero. Camminarono per lunghe ore sulle montagne e nei boschi. Faceva freddo. Verso la fine, il padre prese il bambino sulle spalle. Ormai era troppo tardi. Quando giunsero al villaggio, il bambino era morto”. La prima reazione di Ágota Kristóf, autrice di questo racconto autobiografico, “è quella di qualsiasi svizzero”, scrive, “come può la gente avere il coraggio di avventurarsi in situazioni simili con dei bambini? Un’irresponsabilità di questo genere è inammissibile”. Ma, aggiunge, che il contraccolpo è violento e immediato, la voce della memoria si leva in lei con stupefazione: anche lei aveva fatto la stessa cosa, esattamente la stessa cosa. E la bambina che aveva, era ancora quasi una neonata.

Ágota Kristóf, è stata una scrittrice e drammaturga ungherese naturalizzata svizzera. Nata nel 1935 in un villaggio dell’Ungheria “privo di stazione, di elettricità, di acqua corrente, di telefono”, a quattro anni impara a leggere. Adolescente, negli anni «non amati», e poverissima, viene spedita in un collegio e nel 1956, in seguito alla rivolta ungherese, fugge con il marito e la figlia, e si stabilisce a Neuchâtel, dove vivrà fino alla morte. Il racconto della sua biografia si inserisce nelle pagine de “L’analfabeta”, (Casagrande ed., 2005), titolo ironico per undici capitoli di tutta la sua vita, fino a quando non arriva ad affermare: “quell’ungherese smarrita e senza soldi che ero, è diventata una scrittrice. Come sarebbe stata la mia vita se non avessi lasciato il mio paese? Più dura, più povera, penso, ma anche meno solitaria, meno lacerata, forse felice. La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi lingua”.

Tutti i personaggi dei suoi libri scrivono, o soffrono perché non lo fanno. Lei stessa, in Écrire c’est presque suicidaire, afferma: «al di fuori della scrittura io non vivo». Sono gli stessi anni in cui Sartre da Parigi si interroga sulla scelta della posizione del mondo “dell’autore”: Kristof è una donna, e rifugiata. “L’analfabeta”, sradicata, esposta al freddo, alla fame, alla sofferenza, punta però l’attenzione su una mancanza fondamentale: il bisogno profondo di farsi capire, di comunicare, la conoscenza della lingua che è indispensabile per sopravvivere in un luogo ignoto, e con una bimba piccola. Kristof dimostra coraggio, reagisce in modo attivo, si impiega come operaia, e inizia a trascrivere le poesie che inventa in fabbrica.

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“Come si diventa scrittori? Prima di tutto,naturalmente, bisogna scrivere. Dopodiché bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa nessuno. Anche quando si ha l’impressione che non interesserà mai a nessuno”. Kristof scrive il suo primo libro, e lo propone ai grossi editori. “Tre anni dopo passeggio per le strade di Berlino con la mia traduttrice. Ci fermiamo davanti alle librerie. Nelle vetrine, il mio secondo romanzo. A casa mia, a Neuchâtel, su uno scaffale, “Il grande quaderno”, tradotto in diciotto lingue”. “L’analfabeta”, può sembrare la favola a lieto fine in cui la profuga indigente diventa una scrittrice di fama internazionale, ma è in realtà la testimonianza di una storia vera e dolorosa, legata a una guerra che ha segnato interi Paesi e famiglie. È la vicenda di una persona che si è data da fare per affrontare le difficoltà, e ha insistito con pazienza e ostinazione, senza mai perdere la fiducia, “anche quando i manoscritti si accumulano nei cassetti e li si dimentica, pur continuando a scriverne altri”. 

Paola Silvia Dolci