LMP: la morte possibile. Vita in opera di Leopoldo María Panero. Parte quinta. Il folle

IL FOLLE

                                                         
                                                                                  Mi legheranno nudo a un palo della luce
                                                                                                                           L. M. P.

“LA FOLLIA È PARAPSICOLOGIA FALLITA”

INTERVISTA DI IANUS PRAVO A L. M. PANERO

Caffè El Esdrújulo, a Las Palmas. Pomeriggio.
Leopoldo María Panero mi indica il mozzicone
contorto di una sigaretta che ha appena schiacciato
su un posacenere di coccio, dando inizio a una
festa di cenere.
“Questa è la faccia di C. R.”, dice, e si riferisce a
un ex-amico che gli ha fatto causa per aver messo
in dubbio l’onorabilità di sua madre. Spreme sul
coccio il corpo appena acceso di un’altra sigaretta,
e mi dice: “E questa è la faccia di M. L., che si è
presa i 35mila euro del mio Premio”.
“Chi ti ha dato il Premio?”, gli dico.
“Non so. La CIA. Ma a me non è arrivato un centesimo.
Dicono che sono pazzo. Mi mettono in fac-
cia la maschera della pazzia, la maschera di linguaggio
che è la psichiatria”.
Mi spiegano che l’Associazione degli scrittori
spagnoli ha dato a Panero il Premio “Chisciotte”di
Poesia. Un premio al più grande poeta spagnolo
vivente. Alla buon’ora.
“Prima mi hai detto qualcosa sulla telepatia”.
“No, è che sto inducendo telepaticamente alla
traduzione dei poeti metafisici inglesi, quelli quasi
sconosciuti, Richard Crashaw, Richard Lovelace, to
Lucasta going to the wars, Tell me not, Sweet, I am
unkind, non dirmi, amore, che sono crudele, perché
dal convento del tuo puro ventre e della tua
dolce anima fuggo per le armi e la guerra”.
“La telepatia ha qualcosa a che vedere con la pazzia?”
“La pazzia è parapsicologia fallita. È una parapsicologia
catastrofica. In “Magia e schizofrenia”
Geza Roheim sostiene che il Mago non è schizofrenico,
la sua arte è efficace. Non funziona invece la
magia dello schizofrenico”.
“Ti ho sentito dire che la pazzia è una superstizione
sociale. Ma in altre occasioni la rivendichi
apertamente”.
“Sì, io rivendico la pazzia. C’era un pazzo nel
manicomio di Leganés che diceva io sono il sacrosanto
imperatore, colui che è nato. Un verso bellissimo”.
“Ma tu sei pazzo o non sei pazzo?”
“I pazzi sono quelli che cadono, coloro che vincono.
C’è chi cade e chi non cade. La follia è la pura
verità. Non c’è errore nella follia, come già ho detto
da qualche parte. E non ammette terapia. Va a formare
una seconda struttura nell’uomo, per questo
la rivendico. La follia è il diritto alla fantasia. La
perdita dell’io è il chaptal della follia. E ciò che è
veramente mostruoso è la coscienza, l’ossessione
freudiana di violentare l’inconscio”.
“E come va, nel manicomio, con la nuova dottoressa
che ti segue?”
“Con la Dottoressa Monica? Bene. Non molto
male”.
Le labbra gli si allungano abbozzando un sorriso
beffardo, mentre gli occhi, pozze scure, fango sporco
dove han orinato gli dei e i porci, riescono a luccicare
dal fondo di un’opacità sedimentata. “Mi
tortura, vuole il mio suicidio”, dice.
“Non sarai tu il torturatore?”
“Ah, così sarei io il cattivo del film?”. La sua risata
sembra il battito d’ali di trenta pipistrelli uscen-
do in stormo dalla tana. Da qualche parte ha scritto,
o detto, che il riso è un atto cannibalico, una
sospensione della vita.
“Mi tortura come la vecchia di Patricia
Highsmith. Nei manicomi usano tecniche poliziesche
d’interrogatorio. Sono convinti che il pazzo
mente, mentre, al contrario, è perseguitato dal
vizio di dire sempre la verità”.
Si versa l’ennesima coca cola, non più light, ora è
zero. Allunga la mano verso di me, mi toglie un filo
staccatosi dal bordo della mia maglietta e me lo
mette tra i capelli. “Ti metto i fili nella testa”, dice.
“Ti metto i fili dell’aurora nella testa. Tu sei il
burattino dell’aurora, el nacido, colui che è nato”.
“E sei tu il manipolatore, Leopoldo?”
“Sì. Ha ha ha ha ha ha ha…”
Si toglie una scarpa e la mette sul tavolo. “Questo
è il mio potere”, dice. “Come Kruscev all’assemblea
dell’ONU: Questo è il mio potere. Les souliers
de satin. Le souliers de Satan”. Utilizza il titolo di
un’opera di Paul Claudel per fare un gioco di parole
tra scarpe di raso, satin, e scarpe di Satana.
“Parliamo un po’ dello scrivere. Ti ho sentito
dire: della poesia non m’importa una sega, io son qui
per denunciare il mio assassinio”.
“Sì. Ogni scrittura è una porcheria, diceva
Artaud. Né opera, né arte, né spirito, non c’è nulla,
solo un bel PESANERVI, diceva Artaud”.
“Eppure hai affermato anche tutto il contrario,
dicendo che credi unicamente nella poesia ben
fatta”.
“Bellum cano perenne between usura and a man
who wants to do a good job. Lo disse Ezra Pound.
Canto la perpetua lotta tra l’usura e un uomo che
vuole fare un buon lavoro. Pound lo applicava al
giudaismo, io al capitalismo. Io credo alla poesia
come job. Come creazione di malessere, come lo
sciopero generale nella concezione di Georges
Sorel. Come buon lavoro contro la violenza del
potere. Non c’è ispirazione, c’è lavoro. Ed essere
compresi è l’obiettivo, cal trovar non porta altre chaptal,
perché cantare non riceve altra remunerazione,
come disse la Comtessa de Dia”.
“Quali autori son capaci di provocare questo
malessere soreliano?”
“Kafka, Pound, Beckett…”
“Una cosa che mi colpisce è il rapporto poetico
che stabilisci con tua madre. Hai scritto numerosi
testi su tua madre, bellissimi: ce n’è uno anche nelle
poesie Dal manicomio di Mondragón. Eppure mi hai
dato giudizi molto duri su di lei”.
“Mio padre era un ubriacone violento, e mia
madre ha pianificato scientificamente la mia
distruzione. Era un’arpia”.
“Ma le dedichi una poesia, nella raccolta che traduco
per Azimut, facendone rivendicazione di una
bellezza…”
“La amavo molto. La amavo e la odiavo. Era ciò
che il dottor Oliveros, nel manicomio di
Mondragón, chiamava doppio vincolo. Felicidad,
Felicità si chiamava mia madre, e come la felicità,
suppongo, è splendida e orribile, pura e oscena.
Insomma, ci siamo reciprocamente divorati”.
“L’infanzia è molto viva in te, oppure è troppo
morta”.
“Sì. Si vive solo nell’infanzia, dopo solamente si
sopravvive”.
Si alza dal tavolo, toglie un CD da uno scaffale e
me lo dà. “È di un gruppo rock di Cordova. Hanno
intitolato questo disco Prin’lalà, che era il nome di
un cane immaginario, un cane di pezza con cui giocavo
quando avevo cinque o sei anni”.
Comincia a tremare, ha bevuto troppe coca cole,
anche se lui dice che il freddo gli viene dal veleno
che gli hanno somministrato nell’ospedale.
“Ti fa paura la vecchiaia?”
“È la folle capigliatura della cenere”.
“Ti fa paura la morte?”
“Non mi fa paura, ma della morte parla la mia
poesia. Io non ho titoli per parlare della morte. Un
giorno mi suiciderò, ma non voglio che siano quelli
del manicomio a suicidarmi”.
“Tu sei qualcosa di diverso dalla tua poesia?”
“L’autore non c’è, c’è l’opera. Contrariamente a
ciò che sostiene Musil, siamo qualità senza uomini.
L’autore non parla, è parlato, diceva Lacan.
Purtroppo la maggioranza dei lettori s’interessa
esclusivamente a questa entità fittizia chiamata
autore, e dell’opera non gliene importa nulla.”.
“Lo stesso che fai tu, se ci teniamo a quell’affermazione:
della poesia m’importa una sega…”
“Sì, ma io penso anche, e simultaneamente, tutto
il contrario”.
“Citi spesso Lacan…”
“Per me è un poeta, è quello che diceva Borges: la
poesia come versione ufficiosa della filosofia”.
Appare una ragazza sulla porta del locale, le sorride,
lei lo saluta, all’unisono si mettono a cantare
un motivetto: “Yo tengo un chiringuito, a orilla de
la playa, lo tengo muy bonito, y espero que tu
vayas…”
“Ha ha ha ha ha ha ha…”
Son le otto e mezza, deve tornare al manicomio.
Domani lo porteranno a Siviglia, dove c’è una
manifestazione che si chiama Spoken Work, l’hanno
invitato, alcuni suoi testi sono stati musicati da
gruppi rock spagnoli. Ci diamo un nuovo appuntamento
per lunedì mattina, al ristorante El Reloj.

(Las Palmas, giovedì 1 marzo 2007)

Ristorante El Reloj. Leopoldo inghiotte un budino
in tredici cucchiaiate, una cucchiaiata dopo l’altra,
senza pause. Dopo il tredicesimo boccone, mentre
sta ancora masticando, s’infila tra le labbra una
sigaretta. La schiaccia sul posacenere prima d’aver
incenerito la metà del tabacco, chiede al cameriere
un altro budino, e ripete l’operazione delle tredici
cucchiaiate senza interruzioni e della sigaretta
piantata tra le labbra umide di caramello.
“Caserma è la parola italiana che più mi piace”,
dice.
“Ti piace il suono?”
“Sì, mi piace il suono. È una lama che passa sulle
labbra. Ma mi piace anche per il significato. Per il
colpo di stato permanente in cui sono coinvolto. Io
ne sono il pagliaccio e come Sheherazad, racconto
una favola per non esser messo a morte”.
“E in castigliano, quali parole ti piacciono?”
“Mi piace concento, che vuol dire accordo, concerto,
armonia. Anche in italiano si può dire concento,
vero?”
“Sì, è una bella parola”.
“E mi piace estantigua, fantasma. Hostis antiquus.
Il vecchio nemico. Ho un vecchio nemico
nella mia testa, come un uccello che grida. E a te,
che parole piacciono?”
“ In italiano acqua. Da piccolo non riuscivo a
dirla. Dicevo calaca. E in castigliano álamo, pioppo.
È acqua sulle labbra. E alambre, è un labbro che si
apre alla ferita”.
“Sei una bellezza sprezzante”.
“Bellezza? Sprezzante?”
“Tu sei un usuraio buono”.
“Sì. Un assassino non violento”.
“Sei quello che gli ebrei chiamano lamed wufnik.
Giustifichi il mondo davanti a Dio. I have a sin of
fear. Ho il peccato della paura, diceva John
Donne”.
“Hai paura, Leopoldo?”
“I have fear of you. I want to kill you”.
Mi protende il pugno chiuso, e fa pam. “Cos’è
questo? Una pistola o un microfono?”, dico.
“Pam. È una pistola”.
“A me sembra di più un microfono. Pam. Un
microfono”.
“Ha ha ha ha ha ha ha… La pistola è il microfono
della bellezza… ha ha ha…”
“Toda belleza por el cadáver pasa…”
“Sono innamorato di te, Ianus”.
“Anch’io sono innamorato di te”.
“Ci sposiamo?”
“Los niños no se casan…”
“I nobili portano le corazze, e, ovviamente, i
bambini non si sposano”. (È un verso di una sua
poesia).
Ci alziamo dal tavolo. Leopoldo vuole che lo
accompagni ai giardini dell’Università, dove
schiaccerà un pisolino, è stanco. Paghiamo il conto
del ristorante e prendiamo un taxi. Entriamo nello
spiazzo dell’Università, passiamo, attraverso il bar,
alla parte posteriore dell’edificio. Nel giardinetto ci
sono molti studenti. Più di qualcuno saluta
Leopoldo. “Quella ragazza la chiamo pierna sudada,
gamba sudata”, dice, “e quello là col pizzetto e la
barba rada lo chiamo Bafometto. E tu, Ianus, sei il
cervo, che è un simbolo di Satana”.
“Per favore”, mi dice, “vai al bar a prendermi un
gelato. Ma non dire che è per me. I camerieri
vogliono avvelenarmi”.
Quando torno col gelato, si è sistemato su una
panchina. Sta usando la sua solita borsa azzurra
piena di libri come guanciale. Non vuole più il
gelato. Vuole dormire.
Ha chiuso male la borsa, e un libro cade a terra.
È Animal de fondo di Juan Ramón Jiménez. “Animal
de fondo, said Juan Ramón”, dice.
“È Ezra Pound?”
“Sì, è Pound. Noche, que noche nochera”, e chiude
gli occhi.
“È García Lorca”, gli dico, ma si è addormentato.
Le cose la stanno guardando, e lei non può guardarle,
scrive García Lorca.
Apro il libro di Juan Ramón, alcuni versi e parole
sono sottolineati. Sono sottolineate le parole
jaula, gabbia, e sótano, scantinato. Ed è sottolineato
il verso porque tú amas, deseante Dios, como yo amo.
Perché tu ami, desiderante Dio, come io amo.

(Las Palmas, 5 marzo 2007)

                                     ***

EL LOCO

He vivido entre los arrabales, pareciendo
un mono, he vivido en la alcantarilla
transportando las heces,
he vivido dos años en el Pueblo de las Moscas
y aprendido a nutrirme de lo que suelto.
Fui una culebra deslizándose
por la ruina del hombre, gritando
aforismos en pie sobre los muertos,
atravesando mares de carne desconocida
con mis logaritmos.
Y sólo pude pensar que de niño
me secuestraron para una alucinante batalla
y que mis padres me sedujeron para
ejecutar el sacrilegio, entre ancianos y muertos.
He enseñado a moverse a las larvas
sobre los cuerpos, y a las mujeres a oír
cómo cantan los árboles al crepúsculo, y lloran.
Y los hombres manchaban mi cara con cieno, al hablar,
y decían con los ojos «fuera de la vida», o bien «no hay nada que pueda
ser menos todavía que tu alma», o bien «cómo te llamas»
y «qué oscuro es tu nombre».
He vivido los blancos de la vida,
sus equivocaciones, sus olvidos, su
torpeza incesante y recuerdo su
misterio brutal, y el tentáculo
suyo acariciarme el vientre y las nalgas y los pies
frenéticos de huida.
He vivido su tentación, y he vivido el pecado
de que nadie cabe nunca nos absuelva.

IL PAZZO

Sono stato tra i suburbi, simile
a una scimmia, sono stato nelle fogne
a trasportare feci,
due anni sono stato nel Paese delle Mosche
imparando a nutrirmi di ciò che secerno.
Fui una biscia che scivolava
sulla rovina dell’uomo, gridando
aforismi in piedi sui morti,
attraversando mari di carne sconosciuta
con i miei logaritmi.
E potei solo pensare che da piccolo
mi sequestrarono per un’allucinante battaglia
e che i miei genitori mi sedussero per
eseguire il sacrilegio tra anziani e morti.
Alle larve ho insegnato a muoversi
sui corpi e alle donne a sentire
come cantano gli alberi al crepuscolo, e piangono.
Uomini imbrattavano il mio viso di fango, parlando,
e dicevano con gli occhi «fuori dalla vita», ossia «non c’è niente che possa
valere meno dell’anima tua», ossia «come ti chiami»
e «che oscuro è il tuo nome».
Ho vissuto i bianchi della vita,
i loro equivoci, i loro oblii, la loro
incessante imperizia e ricordo il loro
mistero brutale e il loro tentacolo
accarezzarmi il ventre e le natiche e i piedi
frenetici dalla fuga.
Ho vissuto la loro tentazione e ho vissuto il peccato
da cui pare nessuno mai ci assolva.

(da “Last River Together”, Madrid 1980, “Peter Pan non è che un nome”, Il Ponte del Sale, 2011, trad. di Sebastiano Gatto)

                                                           ***

Los libros caían sobre mi máscara (y donde había
un rictus de viejo moribundo), y las palabras me
azotaban y un remolino de gente gritaba contra los
libros, así que los eché todos a la hoguera para que
el fuego deshiciera las palabras…
Y salió un humo azul diciendo adiós a los libros
y a mi mano que escribe: “Rumpete libros, ne rumpant
anima vestra”: que ardan, pues, los libros en los
jardines y en los albañales y que se quemen mis
versos sin salir de mis labios:
el único emperador es el emperador del helado,
con su sonrisa tosca, que imita a la naturaleza y su
olor a queso podrido y vinagre. Sus labios no
hablan y ante esa mudez de asombro, caigo estático
de rodillas, ante el cadáver de la poesía.
LEOPOLDO MARÍA PANERO,
1/3/87

I libri cadevano sulla mia maschera (e dove c’era
un rictus di vecchio moribondo), e le parole mi colpivano
e un turbine di gente gridava contro i libri,
così che li gettai tutti nel rogo perché il fuoco disfacesse
le parole…
E uscì un fumo azzurro dicendo addio ai libri e
alla mia mano che scrive: “Rumpete libros, ne rumpant
anima vestra”: che ardano, allora, i libri nei
giardini e nelle fogne e che brucino i miei versi
senza uscire dalle mie labbra:
l’unico imperatore è l’imperatore del gelato, dal
rozzo sorriso, che imita la natura e il suo odore a
latte marcio e aceto. Le sue labbra non parlano e
dinanzi a questo mutismo di stupefazione, cado
estatico in ginocchio, dinanzi al cadavere della
poesia.
LEOPOLDO MARÍA PANERO,
1/3/87

En el obscuro jardín del manicomio
los locos maldicen a los hombres
las ratas afloran a la Cloaca Superior
buscando el beso de los Dementes.

Nell’oscuro giardino del manicomio
i pazzi maldicono gli uomini
i topi affiorano nella Cloaca Superiore
cercando il bacio dei Dementi.

Un loco tocado de la maldición del cielo
canta humillado en una esquina
sus canciones hablan de ángeles y cosas
que cuestan la vida al ojo humano
la vida se pudre a sus pies como una rosa
y ya cerca de la tumba, pasa junto a él
una Princesa.

Un pazzo toccato dalla maledizione del cielo
canta umiliato in un angolo
le sue canzoni parlano di angeli e cose
che costano la vita all’occhio umano
la vita marcisce ai suoi piedi come una rosa
e ormai prossimo alla tomba, gli passa a fianco
una Principessa.

Los ángeles cabalgan a lomos de una tortuga
y el destino de los hombres es arrojar piedras a la rosa
Mañana morirá otro loco:
de la sangre de sus ojos nadie sino la tumba
sabrá mañana nada.

Gli angeli cavalcano sul dorso di una tartaruga
e il destino degli uomini è scagliar pietre sulla rosa
Domani morirà un altro pazzo:
del sangue dei suoi occhi nessuno se non la tomba
saprà domani più di nulla.

El loquero sabe el sabor de mi orina
y yo el gusto de sus manos surcando mis mejillas
ello prueba que el destino de las ratas
es semejante al destino de los hombres.

L’infermiere sa il sapore della mia orina
ed io il gusto delle sue mani solcando le mie guance
questo prova che il destino dei topi
è simile al destino degli uomini.

EL LOCO MIRANDO DESDE LA PUERTA DEL JARDÍN

Hombre normal que por un momento
cruzas tu vida con la del esperpento
has de saber que no fue por matar al pelícano
sino por nada por lo que yazgo aquí entre otros
[sepulcros
y que a nada sino al azar y a ninguna voluntad
[sagrada
de demonio o de dios debo mi ruina.

IL FOLLE CHE GUARDA DALLA PORTA DEL GIARDINO

Uomo normale che per un momento
incroci la tua vita con la vita del mostro
devi sapere che non fu per uccidere il pellicano
che fu per niente che io giaccio qui tra i sepolcri
e che a niente se non al caso e a nessuna sacra
[volontà
di demonio o di dio io devo il mio disastro.

LAMED WUFNIK

Yo soy un lamed wufnik
sin mí el universo es nada
las cabezas de los hombres
son como sucios pozos negros
yo soy un lamed wufnik
sin mí el universo es nada
dios llora en mis hombros
el dolor del universo, las flechas
que le clavan los hombres
yo soy un lamed wufnik
sin mí el universo es nada
le conté un día a un árabe
oscuro, mientras dormía
esta historia de mi vida
y dijo “Tú eres un lamed wufnik”*
sin ti Dios es pura nada
*y añadió, “y entre los árabes, un kutb”
(v. Jorge Luis Borges, El Libro de los seres imaginarios)

LAMED WUFNIK

Io sono un lamed wufnik
e senza me l’universo è nulla
le teste degli uomini
son come sporchi pozzi neri
io sono un lamed wufnik
e senza me l’universo è nulla
e dio lacrima sulla mia spalla
il dolore dell’universo, le frecce
che gli piantano gli uomini
io sono un lamed wufnik
e senza me l’universo è nulla
raccontai un giorno a un arabo
oscuro, nel sonno
questa storia della mia vita
e disse “Sei un lamed wufnik”*
senza te Dio è puro nulla
*e aggiunse, “e tra gli arabi, un kutb”
(v. Jorge Luis Borges, Il libro degli esseri immaginari)

EL LOCO AL QUE LLAMAN EL REY

Bufón soy y mimo al hombre en esta escalera
[cerrada
con peces muertos en los peldaños
y una sirena ahogada en mi mano que enseño
mudo a los viandantes pidiendo
como el poeta limosna
mano de la asfixia que acaricia tu mano
en el umbral que me une al hombre
que pasa a la distancia de un corcel
y cándido sella el pacto
sin saber que naufraga en la página virgen
en el vértice de la línea, en la nada
cruel de la rosa demacrada
donde
ni estoy yo ni está el hombre.

IL FOLLE CHE CHIAMANO IL RE

Buffone sono e mimo l’uomo su questa scalea
[chiusa
con pesci morti sui gradini
e una sirena affogata nella mia mano che mostro
muto ai viandanti chiedendo
come il poeta elemosina
mano dell’asfissia che accarezza la tua mano
sulla soglia che mi unisce all’uomo
che passa alla distanza di un corsiero
e candido sigilla il patto
ignaro del naufragio nella pagina vergine
nel vertice della riga, nel niente
crudele della rosa dimacrata
dove
non ci son io e non c’è l’uomo.

a José Saavedra

Has dejado huella en mi carne
y memoria en la piel de las interminables bofetadas
que surcaran mi cuerpo en el claustro del sueño
quién sabe si mi destino se parecerá al de un
[hombre
y nacerá algún día un niño para imitarlo.

a José Saavedra

Hai lasciato traccia nella mia carne
e memoria nella pelle degli interminabili colpi
che solcarono il mio corpo nel chiostro del sogno
chi lo sa se il mio destino somiglierà al destino di
[un uomo
e se un giorno nascerà un bambino per imitarlo.

Ven hermano, estamos los dos en el suelo
hocico contra hocico, hurgando en la basura
cuyo calor alimenta el fin de nuestra vidas
que no saben cómo terminar, atadas
las dos a esa condena que al nacer se nos impuso
peor que el olvido y la muerte
y que rasga la puerta última cerrada
con un sonido que hace correr a los niños
y gritar en el límite a los sapos.

Fratello vieni, stiamo entrambi per terra
muso contro muso, frugando nell’immondizia
il cui calore alimenta la fine delle nostre vite
che non sanno come terminare, legate
entrambe a quella condanna che al nascere ci fu
[imposta
peggio dell’oblio e della morte
e che squarcia la porta estrema sbarrata
con un suono che fa scappar via i bambini
e gridare nel limite i rospi.

Ne sachant pas, ingrat!, que c’était tout mon sacre
Ce fard noyé dans l’eau perfide des glaciers
STÉPHANE MALLARMÉ

En mi alma podrida atufa el hedor a triunfo
la cabalgata de mi cuerpo en ruinas
a donde mis manos para mostrar la victoria
se agarran al poema y caen
y una vieja muestra su culo sonrosado
a la victoria
pálida del papel en llamas,
desnudo, de rodillas, aterido de frío
en actitud de triunfo.

Nella mia anima marcia appesta il tanfo di trionfo
la cavalcata del mio corpo in rovina
dove le mie mani per mostrare la vittoria
si afferrano alla poesia e cadono
e una vecchia mostra il culo rosato
alla vittoria
pallida della carta in fiamme,
nudo, in ginocchio, irrigidito dal freddo
in gesto di trionfo.

(da “Poemas del manicomio de Mondragón”, Madrid 1987, “Dal manicomio di Mondragón”, Roma 2007, traduzione di Ianus Pravo).

                                                                         ***

Hay restos de mi figura y ladra un perro.
Me estremece el espejo: la persona, la máscara
es ya máscara de nada.
Como un yelmo en la noche antigua
una armadura sin nadie
así es mi yo un andrajo al que viste un nombre.
Dime ahora, payo al que llaman España
si ha valido la pena destruirme
bañando con tu inmundo esperma mi figura.
Tus ángeles orinan sobre mí.
San Pedro y San Rafael
en una esquina comentan
mientras avanzo borracho
sobre esa piedra, payo,
que llaman España.

Ci son resti della mia figura e abbaia un cane.
Mi dà i brividi lo specchio: la persona, la maschera
è ormai maschera di nulla.
Come un elmo nella notte antica
un’armatura senza nessuno
così è il mio io un miserabile che un nome veste.
Dimmi adesso, paisa’ che chiamano Spagna
se è valsa la pena distruggermi
bagnando col tuo immondo sperma la mia figura.
I tuoi angeli orinano su di me.
San Pietro e San Raffaele
in un angolo ne parlano
mentra avanzo ubriaco
su questa pietra, paisa’,
che chiamano Spagna.
(da “Piedra negra o del temblar”, Madrid, 1992, trad. di Ianus Pravo)

***

BRILLO EN LA MANO

Locura es estar ausente
humo es todo lo que queda
de mí en la página que no hay
cae al suelo mi figura
y libre de mí se mueve
el papel de pura ausencia.

LUCE NELLA MANO

Follia è starsene assente
fumo è tutto ciò resta
di me nella pagina che non c’è
cade al suolo la mia figura
e libero di me si muove
il foglio di pura assenza.

(“Contra España y otros pòemas no de amor”, Madrid, 1990, trad. di Ianus Pravo).

***

Yo no soy el que soy.
Sangra la luna
y amargo el río de mi vida, en pez
se convierte.
Una humedad es la vida, quizás un pecho
de luchar contra ella con el valor de un muerto
con el valor sin sombra de la nada.
Y el viento refulge, y las esquinas
monedas son para incendiar el poema
en la lápida sin sombra de la nada.
En esta fecha me muero
y a partir del último
mis días se cuentan: Scardanelli
cuenta a los niños la leyenda de su muerte
que asoma, pálida, a través de la punta de mis dedos
violetas, húmedos, calientes.
La luz ha muerto.
Sollozan delfines
de entre la punta de mis dedos
violáceos, húmedos, calientes
torpes
para escribir,
mientras la luna
se ríe eternamente del poema.

Io non sono chi sono.
Sanguina la luna
e amaro il fiume della mia vita, in pesce
si trasforma.
Un’umidità è la vita, forse un seno
di lottare contro di essa con il coraggio di un morto
con il coraggio senz’ombra del nulla.
E il vento risplende, e gli angoli
son monete per incendiare il poema
nella lapide senz’ombra del nulla.
In questa data muoio
e iniziando dall’ultimo
i miei giorni si numerano: Scardanelli
racconta ai bambini la leggenda della sua morte
che spunta, pallida, attraverso la punta delle mie dita
viola, umide, calde.
La luce è morta.
Singhiozzano i delfini
tra le punte delle mie dita
violacee, umide, calde
goffe
nello scrivere,
mentre la luna
eternamente ride del poema.

(da “Locos”, Madrid 1992, trad. di Ianus Pravo)

***

PALINSESTO: ABBECEDARIO DELLA FOLLIA

LA MASCHERA DELLO SMASCHERAMENTO

di Ianus Pravo

Cos’è il cervello umano, se non un palinsesto naturale e poderoso?
Il mio cervello è un palinsesto: il tuo cervello, o lettore, è un
palinsesto. Sul tuo cervello sono caduti, con la dolcezza della luce,
strati di idee, immagini e sentimenti. Ogni generazione sembra
seppellire tutte le precedenti, sebbene in realtà nessuna si sia estinta.
THOMAS DE QUINCEY

Noi, gli scrittori ultimi o postumi, non siamo
altro che correttori di bozze.
LEOPOLDO MARIA PANERO

Peter Pan non è che un nome. La fissità dello sguardo sull’immagine nello specchio,
il rigor mortis dello sguardo (bambino) che non vede, che si esime dalla tristezza
di voler vedere. Che si libera dell’intollerabile divenire, che annienta il volto, Edipo. E
Edipo, senza volto, è per se stesso ciò che il volto di Giuda è per Cristo: padre del
desiderio, padre del lamento. Là / è mio padre caduto e morto e nessuno lo vede (“Tres historias de vida real”, 1981) scrive Panero, ma prima ancora aveva definitivamente affermato
Vuoi un padre? No grazie (“Teoría”, 1973): ma non è un problema di volontà.
La volontà è tristezza, il desiderio (il padre) è lamento (il padre). Cosa c’è di più triste
che predisporre volitivamente i mezzi per il compimento del desiderio? Cosa c’è di
più miserabile che trasformare il desiderio in volontà di potenza? Cosa c’è di più
pretesco che concepire la disponibilità dell’oggetto del desiderio? Che immaginare il
desiderio come un’attività pratica, che ha esterno a sé il proprio fine? Forse c’è una
cosa più triste, ma è l’altro corno della medesima testa: non godere dell’allegria del
lamento, cioè non godere del desiderio.

Correggendo Adorno, sostengo che dopo Auschwitz non è lo scrivere poesia un
atto di barbarie: lo è vivere. La vita è breve e l’arte è così grande… e l’Assenza, ciò che
da noi è radicalmente Altro, è la Vergine di fronte alla cui fragilità inginocchiarsi.
L’Assenza che soffia sulla maschera della parola, la maschera che, in risposta a Walt
Whitman (“le agonie sono uno dei miei travestimenti”), è la mia unica agonia, la mia sola
verità: l’arsi della corda a cui si impicca Giuda, la tesi del bastone che ritma il passo a
Edipo: adorazione di Astaroth, ah vecchio malvagio che disegni / una mano dove non ce
n’è nessuna / bensì delle labbra che tremano / per la pagina in bianco / solo a te dedicata /
signore del mio sepolcro e signore del nulla, angelo / che sorvoli il sepolcro / con la bandiera
del nulla (L. M. P., “Esquizofrénicas”, 2004).

Panero usa le parole come lacrime. Ma non è l’amante delle lacrime, ne è il ruffiano.
Non vi è al mondo che una forma, la forma della lacrima. La forma senza forma
della lacrima. Il dolore senza dolore delle lacrime senza pianto. Oppongo le lacrime al
pianto. La lacrima è la forma dell’informe. Il pianto è l’informe della forma. Il pianto
vuole una prefica al giusto prezzo. La lacrima vuole un Giuda, né giustizia né prezzo.
Ogni lacrima vigila il cadavere di un concetto. Ogni lacrima è giardino e delizia del
vano.

Er resplan la flors enversa. Ora risplende il fiore inverso / per balze aguzze e per
colline. / Che fiore? E neve e gelo e brina, / che avvampa, avvinghia e taglia, / ché trilli,
canti, grida a me son spenti. Raimbaut d’Aurenga suggerisce l’inversione del giardino,
il territorio d’inferno di Ialdabaoth, ridotto al silenzio da un sigillo (L. M. P., “Teoría”,
1973). Ialdabaoth, o Astaroth, o Satana, non sono che nomi da pronuciare in solitudine
nella camera al buio (L. M. P., “Así se fundó Carnaby Street”, 1970). O Belial, tu
che adori il vino / e il suo grido / tu che cerchi nel nulla / il tremore di Beherito e domani
il poema / tornerà ad esser vinto dal grido (L.M.P., “Esquizofrénicas”, 2004). O Peter
Punk, questa infanzia imputridita. Questo amore per i vinti («il fallimento è per me la
più splendida delle vittorie», dice Panero nel film di Jaime Chavarri “El desencanto”,
1976), questo amore per un Anteros che non è più, come nella classicità, Deus Ultor,
ma Deus.

Farai un vers de dreit nien. E con Panero, «vidi la nave del senso affondare tra i miei
occhi» (“El último hombre”, 1983). La nave della peste che approda sul ventre della
bellezza, “il nulla / crudele della rosa dimacrata / dove / non ci son io e non c’è l’uomo” (L.
M. P., “Poemas del manicomio de Mondragón”, 1987). Io sono Colui che non è, anti-
Genesi di un Narciso fatto Eco: “vengo dal paese / dei ladri di parole, degli uomini che
ascoltano / solo per possedere la parola” (L. M. P., “El último hombre”, 1983). Neckar, o
palude.

Silesius, ancora oltre Dio, al deserto devo tendere. E Scardanelli, signore del Neckar,
nulla può succedermi. E Sade, come Mallarmé, donnant un sens plus pur aux mots de la
tribu. (Purior salillo est). E Samsa, “sono uno scarafaggio che trema di freddo” (L. M.
P., “Los señores del alma”, 2002). Dio sonno senza sogno, Cristo sogno senza sonno.
Io sono un sonno senza sono.

L’Eternità è futile come il cancro. Ogni idea che muore è una iena in meno e una
rosa in più. L’eros, affermazione di volontà, idea, presenta un’economia. Il porno, abbandono
di volontà, oblio, è ecolalia. Eco nello specchio.
Senza nome, senza Io, solo il sibilo del serpente, il morso azzurro del morto (L. M.
P., “Discepolo della follia”, 2005). Senza specchio.

Tiger, burning bright. In the forests of the night. Lo scrisse William Blake, e tigre è
Dioniso, simbolo della collera e della crudeltà. O, nella tradizione cinese, simbolo dell’oscurità,
delle tenebre dell’anima, lo stato che l’induismo denomina tamas, lo scatenamento
delle potenze dell’istintività. È la traduzione, il tradimento paneriano del
sublime, perché tigre, nell’argot carcerario, significa cesso: “Nelle mie mani accolgo gli escrementi
/ formando con essi poesie” (L. M. P., “Contra España y otros poemas no de
amor”, 1990), oppure “non prevedevo / questo finale sull’orlo del cesso / dove i miei giorni
sono atrocemente sempre / lo stesso giorno” (L. M. P. “Piedra negra o del temblar”, 1992).
È Peter Punk. Perche la tigre, nella simbologia cinese (come il leone in quella africana),
appare in due stati differenti: quello della fiera selvaggia e quello della fiera domata: è
la deleuziana, sempiterna, doppiezza del testo, la sua libertà e la sua oppressione: tigretanfo
della parola, per cui Panero mi può guardare negli occhi e mi può dire: “Non
credo nella vita. Credo nella poesia tecnicamente ben scritta”, e a continuazione dettarmi
questi disperati versi “pregando solo la pagina / che è l’unico Signore della mia
anima / l’unico tetro Signore del mio sguardo / che pare a chi lo sguarda ch’omo sia / ma
la pagina non è un uomo” (da “Senz’arma che dia carne all’imperium”, di L. M. P. e
Ianus Pravo, Società Editrice Fiorentina, 2011). Del resto, dal dolore si può prescindere,
dalla disperazione no.

“Oh sempre dicendo oh”, “e il dolore trasformiamo in bocca, una bocca che parla e
parla, che s’arrotola come una persiana, una lacrima che dice dove non si può più dire
nulla, dice oh! ah! “ (L. M. P., “Prueba de vida”, 2002). C’è ormai solo il grido: come
ho già segnalato, “… e domani il poema / tornerà ad essere vinto dal grido” (L. M. P.,
“Esquizofrénicas”, 2004). È il “farai un vers de dreit nien” di Guilhem de Peitieu, è «la
nave del senso vidi affondare tra i miei occhi » (L. M. P., « El último hombre», 1983), la
folle poesia detta per nulla e per nessuno, la maschera senza scena. O poeta é um fingidor,
raschia una e un’altra volta la pergamena (palin psân), profana il cadavere, si cala
sul viso la maschera dello smascheramento (“oh! ah!”), impugna il significante carente
di significato, traccia sulla pergamena un otto, il numero 8: “superficie in cui è uguale
/ il diritto e il rovescio/ oh! anello di Moebius, atroce numero 8” (L. M. P., “Poemas de la
locura”, 2005).

Barcellona, 7-8 luglio 2010

***                   

Leopoldo María Panero (Madrid, 1948) è autore dell’opera più radicale e originale della poesia spagnola contemporanea. Ha pubblicato più di cinquanta libri, tra poesia, narrativa, saggistica. Attualmente vive nel manicomio di Las Palmas di Gran Canaria, dopo aver compiuto, negli ultimi trent’anni, un vero e proprio tour per le istituzioni psichiatriche spagnole.
Bibliografia in italiano:
“Narciso nell’accordo estremo dei flauti”, Azimut, 2005, trad. di Ianus Pravo
“Dal manicomio di Mondragón”, Azimut, 2007, trad. di Ianus Pravo
“Peter Pan non è che un nome”, Il Ponte del Sale, trad. di Ianus Pravo e Sebastiano Gatto.
“Il cervo applaudito”, EDB Edizioni, 2013, trad. di Ianus Pravo
Direttamente in italiano L. M. Panero ha scritto, insieme a Ianus Pravo, “Senz’arma che dia carne all’imperium”, Società Editrice Fiorentina, 2011.