Recensioni
Il sorriso del tulipano di Emilio Paolo Taormina, a cura di Rosanna Frattaruolo
Il sorriso del tulipano
di Emilio Paolo Taormina
Giuliano Ladolfi Editore, 2020
ritratto di copertina opera di Anna Borella
Ogni poesia di questa raccolta è l’istantanea di un paesaggio emotivo fotografato in diversi momenti della giornata, nei passaggi da una stagione all’altra della vita. Un paesaggio che cambia a seconda della luce che arriva agli occhi di Paolo Taormina. Quasi un Monet intento a trascrivere su carta la sua cattedrale di Rouen, partendo dalle versioni mattutine per poi giungere a quelle meridiane e serali; un esempio, mi piace pensare, di scrittura “en plein air”. Al variare degli impulsi di luce che Taormina riceve, il paesaggio assume sfumature differenti tali che particolari visibili alla sera non saranno più percepibili all’alba: la tristezza di rosa recisa, dei fiocchi di neve di un’assenza, la colomba d’oro nel cielo gelido di gennaio svaniscono dunque per lasciar posto, in un’altra istantanea, alla visione solare della tarda estate: sei entrata / nelle mie parole / come il sole / nei frutti maturi / hai di questa / mia stagione / il sapore dolce / dell’uva.
Un tempo, quindi, non scandito dall’orologio, ma dalle stagioni, dagli eventi astronomici. E’ così che una sera ci sembra così leggera, una camicia al vento /e un cesto /di stelle / e di arance / sul manubrio, quella successiva è un invito ad ascoltare in religioso silenzio la collina prona / come un monaco / in preghiera.
Il tempo trascorre tra quei versi senza la fretta dei nostri giorni, con il dovuto rispetto per l’ultimo sorso di vino dei mezzadri, per il riposo dei pastori intorno al recinto di pietre dell’ovile intenti a leggere i ghirigori dei pipistrelli.
Non c’è fretta se non per rivedere l’amata e così: le mie mani / sono impazienti / di stringere le tue.
Le sue evocazioni paesaggistiche, la malinconia, il tempo e l’attesa, alcuni dei collanti dei versi di Taormina.
Leggendoli, diventiamo recettori sensoriali di profumi, sapori e suoni in grado di catapultarci in una dimensione umana essenziale, necessaria, che non abbisogna di fronzoli letterari per farsi poesia.
I suoi versi filano lisci come l’olio che, con orgoglio contadino, Taormina produce biologicamente ancora con gesti antichi. Un “piccolo coltivatore di versi” – così mi piace definirlo – e la sua poesia, una premitura a freddo di parole, essenza di educazione, sacralità del rito – oggi è domenica / ed ho indossato / la giacca buona / e la cravatta /a farfalle / tu come sempre / sei venuta ad aggiustarla – un frutto raccolto ed accolto non prima della necessaria maturazione.
“Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)”.
È quasi l’incipit del racconto, la dedica che Antoine de Saint-Exupèry ne Il Piccolo Principe fa a Leone Werther. O meglio, a Leone Werther quando era un bambino. Ebbene, che tutti i grandi siano stati bambini una volta, Paolo Taormina non l’ha dimenticato: nella sua poesia ha sempre uno sguardo aperto al suo essere bambino, alla sua voglia di sognare e giocare col mondo come un bambino.
Lo ammette anche lui: sono un bambino / che abita / nel corpo / di un vecchio / quando lui dorme / mi affaccio / ai suoi occhi / gioco col mondo e quando i bambini / si rincorrono / come ombre / nella sera / passo fra di loro / non si accorgono / che anch’io / gioco.
Un bambino che Paolo vuol lasciare nel sogno: non vuole che nessuna brezza / lo svegli.
Anche nell’uso delle evocazioni paesaggistiche, a me così familiari, lo sguardo è quello di Paolo bambino, che tutte le mattine guarda il mondo con stupore come se fosse la prima volta: quello che scorge nelle cavità degli ulivi accovacciati nidi di bisce, che riesce a mescolare così bene cielo e mare che i gerani diventano pesci, quello dell’intuizione fanciullesca che specchiandosi / nel secchio d’acqua / il gatto cerca / con la zampa / un compagno /di giochi.
Ma nessuna alba / si sveglia / senza il seme / della sera. E seppur Paolo, il bambino, cammina ancora nel sonno, nel bosco delle mele appare l’elemento di disturbo: una lucertola / sulla nuca / morde i ricordi / come insetti / agonizzanti. La presenza dei ricordi risveglia la consapevolezza del tempo che passa, ma non spegne la voglia di scoprire cosa si celerà dietro una nuova alba. Gli anni mi piegano / come un albero / cresciuto nell’ombra / che cerca il sole. A contrapporsi alle lacrime pungenti come spighe di grano duro, voglio che / sul mio tronco / abbandonato / sulla spiaggia / tornino a fiorire / le gemme del mandorlo.
Tutta la poesia di Taormina è un dedicarsi completamente alle donne della sua vita. Non solo a sua madre, ma anche alla sua donna, alla sua amata. I frutti, le stagioni, le evocazioni sensoriali diventano il pretesto per scrivere di loro e per loro, per entrare a colloquio con la parte femminile del poeta. Le donne sono parte irrinunciabile del suo paesaggio emotivo.
Per un bambino, la mamma rappresenta il primo soggetto d’amore; è la prima immagine di donna che ha davanti a sé. Paolo sente ancora viscerale il rapporto con sua madre: nei suoi versi è quasi un tornare nel suo grembo; non può più accarezzarla, se non con le parole e con il sogno; la ricorda nei suoi momenti di dolcezza infinita e, nel mentre, la foglia cade lentamente quasi a non voler lasciare che anche il ricordo svanisca troppo velocemente, a voler mantenere vivo il contatto con lei il più possibile. Ma poi sogna la sua mano bagnata a coprigli il viso: il ricordo di sua madre in un giorno di pioggia sotto i bombardamenti.
Ma “farsi primavera, significa accettare il rischio dell’inverno. Farsi presenza, significa accettare il rischio dell’assenza…” Così ne Il Piccolo Principe, scriveva ancora Antoine de Saint-Exupèry. E’ così che come l’amore entra nelle parole come il sole /nei frutti maturi, allo stesso tempo ci mostra tutta la nostra fragilità di fronte all’evento della morte, della perdita della persona amata, della fine di un amore; ci mette in contatto con le tinte buie dell’anima: la paura di soffrire o di far soffrire, la paura di perdere l’altro o di perdersi nell’altro e non ritrovarsi più.
Amare significa accettare il rischio di soffrire, perdendo la persona amata. La poesia di Taormina sembra abbia consolidato questo assioma, essendo pregna di amore anche a scapito della presenza fisica. La sofferenza viene accettata e diviene musica dell’anima, quella sana tristezza che accompagna i suoi versi: c’è un pianoforte / che nessuno / suona più /ma per le stanze /girano ancora / le serenate.
Ancora percepisce l’amata nel sogno, nell’erba sulla collina sempre verde a rassicurarlo nel cammino braccio contro braccio con la morte; l’avvicina al suo essere bambino facendola tornare bambina, regalandole ancora tempo per giocare con la sabbia in giardino, per danzare di notte coi conigli intorno alla luna piena.
Rosanna Frattaruolo
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