l’animale di Auschwitz
Rudolf Hoss, ufficiale delle SS, fu per due anni il comandante del più grande campo di sterminio nazista, quello di Auschwitz, in cui vennero uccisi più di due milioni di ebrei. Processato da un tribunale polacco alla fine della guerra, venne condannato a morte. In carcere, in attesa dell’esecuzione, scrisse questa autobiografia.
«Di solito, chi accetta di scrivere la prefazione di un libro lo fa perché il libro gli sembra bello: gradevole da leggersi, di nobile livello letterario, tale da suscitare simpatia o almeno ammirazione per chi lo ha scritto. Questo libro sta all’estremo opposto. È pieno di nefandezze raccontate con una ottusità burocratica che sconvolge; la sua lettura opprime, il suo livello letterario è scadente, e il suo autore, a dispetto dei suoi sforzi di difesa, appare qual è, un furfante stupido, verboso, rozzo, pieno di boria, e a tratti palesemente mendace. Eppure, questa autobiografia del Comandante di Auschwitz è uno dei libri più istruttivi che mai siano stati pubblicati, perché descrive con precisione un itinerario umano che è, a suo modo, esemplare: in un clima diverso da quello in cui gli è toccato di crescere, secondo ogni previsione Rudolf Höss sarebbe diventato un grigio funzionario qualunque, ligio alla disciplina ed amante dell’ordine: tutt’al piú un carrierista dalle ambizioni moderate. Invece, passo dopo passo, si è trasformato in uno dei maggiori criminali della storia umana… Un’ordinata vita famigliare, l’amore per la natura, un moralismo vittoriano. Appunto perché il suo autore è un incolto, non lo si può sospettare di una colossale e sapiente falsificazione della storia: non ne sarebbe stato capace», scrive Primo Levi nella Prefazione.
«La sua colpa, non scritta nel suo patrimonio genetico né nel suo esser nato tedesco, sta tutta nel non aver saputo resistere alla pressione che un ambiente violento aveva esercitato su di lui, già prima della salita di Hitler al potere».
«Il Dovere, la Patria, il Cameratismo, il Coraggio. Parte volontario, e lo scaraventano diciassettenne sul selvaggio fronte iracheno; uccide, resta ferito, e si sente diventato uomo, cioè soldato: per lui i due termini sono sinonimi. La guerra è (dappertutto: ma in specie nella Germania sconfitta e umiliata) una pessima scuola».
«Il regime carcerario è duro, ma gli si confà: non è un ribelle, la disciplina e l’ordine gli piacciono, anche espiare gli piace; è un carcerato modello».
«Sarà questa una delle sue costanti: ordine ci vuole, in tutto; le direttive devono venire dall’alto, sono buone per definizione, vanno eseguite senza discuterle ma coscienziosamente; l’iniziativa è ammessa solo al fine di una più efficiente esecuzione degli ordini. L’amicizia, l’amore e il sesso gli sono sospetti; Höss è un uomo solo».
«La milizia presso le SS comprendeva una “rieducazione” intensiva e abile, che lusingava l’ambizione degli adepti: questi, per lo più incolti, frustrati, reietti, si sentivano rivalutati ed esaltati. La divisa era elegante, la paga buona, i poteri quasi illimitati, l’impunità garantita (come la maggior parte della classe politica italiana contemporanea, ndr); erano oggi i padroni del paese, e domani (lo diceva uno dei loro inni) del mondo intero».
«Le ideologie possono essere buone o cattive; è bene conoscerle, confrontarle e cercare di valutarle; è sempre male sposarne una, anche se si ammanta di parole rispettabili quali Patria e Dovere».
Scrive Natalia Ginzburg, sul La Stampa, nel 1972
«Il dolore e le stragi di innocenti che abbiamo contemplato e patito nella nostra vita non ci danno nessun diritto sugli altri e nessuna specie di superiorità. Coloro che hanno conosciuto sulle proprie spalle il peso degli spaventi non hanno il diritto di opprimere i propri simili con denaro o armi, semplicemente perché questo diritto non lo ha al mondo anima vivente».
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