APSIDE

a cura di Ianus Pravo

 

“Apside è il termine astronomico che designa ciascuno dei due estremi dell’asse maggiore dell’orbita tracciata da un astro”
 

 

“Le nostre teste sono gli apsidi dell’orbita di un astro oscuro quanto il silenzio, cieco quanto il tatto. La stella d’un volto macchina. Questo fascismo del volto”.
(“Moleskine dell’errore”, Ianus Pravo)

Non essere uno, dividere l’unità moltiplicandosi per essere due o più. Questo potrebbe essere il principio che ispira una delle modalità della logofagia, la modalità che offrono quei testi che si presentano non in una forma unica, come è abituale, bensì in due o più. Si tratta della forma, logofagica dell’Apside. Le forme logofagiche della scrittura sono le sole esposte all’eventualità della bellezza, cioè della discreazione, agendo l’atto dello scrivere su un immenso palinsesto che esige cancellatura o astinenza. La scrittura è stutata, atto di spegnimento, come lo è l’illuminazione nel buddhismo. Il silenzio è la voce, un tremore. La malinconia del porno.

“Apside è la figura della logofagia per cui l’unità testuale si dissemina in due o più testi dello stesso rango,” (non si tratta di testi che perfezionano un originale, convertito quindi in una semplice brutta copia di cui disfarsi) “dandosi tra di essi la variabilità discorsiva. In virtù di questa variabilità i testi di un testo-apside possono divergere anche in un solo elemento lessicale, nell’ordine delle sequenze, oppure in ciascuno dei suoi componenti. Ognuno dei testi risultanti è variante dei restanti” (Túa Blesa, “Logofagias. Los trazos del silencio”, Zaragoza 1998, trad. it. Ianus Pravo).

Il testo-apside “nega il concetto stesso di origine installando nel luogo che questo dovrebbe occupare la molteplicità, la molteplicità di tutto l’originato, che gli si sovrappone, molteplicità che nomina adesso testo e origine ognuna delle versioni, tanto come testo originato. Così, i testi apside non sono ‘versioni di’, ma ‘versioni in’… A partire dalla variabilità dei discorsi di ognuna delle versioni si tesse una maglia di relazioni fatte d’identità e differenza, che differiscono il loro risultato -il testo che si deve tessere- in attesa di un testo che istituisca la sua origine e che solamente può essere successivo, non causa, bensì, spodestando questa dalla sua supremazia, rendendola impotente, facendo sì che venga rimandata e rimanga differenziata, effetto, causa differita”. (Túa Blesa, op. cit.).

“Nominare la variabilità testuale fa ricordare l’instabilità discorsiva che caratterizza i testi orali, un’instabilità che è l’oralità stessa, e che in questo tipo testuale è traslata alla scrittura stessa, a cui era, in principio, estranea, in un atto di riconciliazione”. (Túa Blesa, op. cit.).

Esempi di testo-apside:

HAIKU (VARIABILE) di Leopoldo María Panero
(“Narciso nell’accordo estremo dei flauti”, trad. Ianus Pravo, Roma 2005)

Io sono solo il mio profilo.
Quando la neve cade, del mio volto
non si vede più nulla.

(Variante) Io sono solo il mio profilo.
Quando la neve cade dal mio volto
non si vede più nulla.

(3ª variante) Quando la neve cada
già non sarò.

(Apside composto da Dino Campana):

DONNA GENOVESE

Tu mi portasti un po’ d’alga marina
Nei tuoi capelli, ed un odor di vento,
Che è corso di lontano e giunge grave
D’ardore, era nel tuo corpo bronzino:
-Oh la divina
Semplicità delle tue forme snelle-
Non amore non spasimo, un fantasma,
Un’ombra della necessità che vaga
Serena e ineluttabile per l’anima
E la discioglie in gioia, in incanto serena
Perché per l’infinito lo scirocco
Se la possa portare.
Com’è piccolo il mondo e leggero nelle tue mani!

LA GENOVESE

Tu mi portavi un po’ d’alga marina
Nei tuoi capelli ho raccolto odor di vento
Sui tuoi ginocchi tu bronzina a te

………………………………………………………

Sui miei ginocchi tu bronzina, quale
Lieve bronzina quale
Liev’ombra di necessità: te cingendo, che va:
Per l’anima tu sciolta
Tu sciolta un incanto sereno
Così come i sogni che porta
Scirocco sul mare Tirreno.

HAIKU VARIABILE* di Ianus Pravo (a Túa Blesa)

passa la mano
passami la mano
mano sugli oh cchi

(2ª variante) ozio e pietà
l’inverno della stanza
luna dei corpi

(3ª variante) <··> <·> <··>
<···> <·> <·> <··>
<··> <··> <·>
{Il segno · viene a significare una respirazione sillabica muta).

*”… N’agapetheî akóme perissóteron
he hedonè poù noserôs kaì mè phtorà apoktâtai…”
(Nota di Konstadinos Kavafis)

M’interessano le forme della logofagia, della distruzione del Discorso come macchina produttiva di significati e quindi di potere. Il silenzio è anarchico. Roland Barthes disse che “la lingua, come esecuzione di ogni linguaggio, non è né reazionaria né progressista, è semplicemente fascista, dato che il fascismo non consiste nell’impedimento a dire, bensì nell’obbligo a dire”. La scrittura meticciata col silenzio è pluralità, eccesso, illimite, dissolvimente delle misure apollinee. L’apside è una delle forme della logofagia, ed esprime quel tremore, quella incertezza, quella varianza che è tipica dell’oralità, è la prosodia del tremore. Per capirne l’immagine, bisogna rilevare che, essendo il discorso una successività, e la scrittura è la sua rappresentazione, le varianti che costituiscono il testo apside non possono presentarsi (sulla carta o su questo schermo) se non ordinate nella linearità. Ma questo è puramente circonstanziale, è una necessità della scrittura come la pratichiamo. Questi testi devono essere concepiti come progenie senza progenitura, dove non s’invoca un’origine, un testo che occupi il luogo del padre, bensì è una prole senza capofamiglia. Le varianti, per esempio, dell’haiku di Panero partecipano a un archihaiku non presente, non anteriore, non originario, ma assente, e naturalmente posteriore alle tre versioni, testi che adesso costruiscono una struttura carente di testo autoritario, autorizzante o autorizzato. Le varianti vanno considerate non nella successione grafica imposta dalla scrittura, ma in una simultaneità, descrivendo un movimento orbitale intorno all’astro del testo (che è il silenzio). Ho il ricordo vivo, emozionato, di una lectura di Carmelo Bene, nel Veneto, molti anni fa. Canti Orfici. La dizione di Donna genovese seguita senza interruzione da quella de La genovese, mi diede la sensazione fortissima della tortura che fu per Dino Campana recuperare nella memoria, nel manicomio di Castel Pulci, i testi del manoscritto perduto. Ma ora vorrei immaginare la dizione simultanea dei due testi, la dizione di ognuno diffusa da una fonte fonica distinta, a descrivere gli apsidi di un’orbita sonora che forma l’astro oscuro. Piacerebbe a Carmelo questo tumulto logofagico? Questa pratica porno in cui volontà, rappresentazione, significato, coscienza sono assenti, e il corpo del tremore è la sola anima in cerca del Padrone?

Così andammo infino alla lumera,
parlando cose che ‘l tacere è bello,
sì com’era ‘l parlar colà dov’era”.
(Dante Alighieri, “Inferno”, canto IV)