Avrai vent’anni tutta la vita – Intervista a Nicola Mariuccini da parte di Giovanni Falsetti

Avrai vent’anni tutta la vita è il nuovo libro di Nicola Mariuccini. Un’opera narrativa che si mostra accattivante fin dalle prime battute. Maneggia oggetti pesanti e taglienti con intelligente leggerezza. Attraente è prima di tutto il tema: il rapimento del generale Dozier, il 17 dicembre 1981, comandante NATO dell’Europa Meridionale, per mano di un nucleo della colonna veneta delle Brigate Rosse-Partito comunista combattente. Un episodio che coglie gli anni di piombo nel loro momento culminante e insieme nel loro drammatico declino. Il libro rivela tutto il carattere velleitario della strategia del Partito Armato, nella sua lotta illusoria allo Stato Imperialista delle Multinazionali e, insieme, il destino dei giovani che, come il protagonista della tua storia, restarono vittime di errori giudiziari nella repressione attuata dallo Stato. Coinvolgente è anche e soprattutto lo stile letterario: un dialogo rapido, serrato, drammatico, che si svolge parallelamente a una partita a scacchi, metaforica ma non per questo meno crudele.

G.F.:
Allora Nicola Mariuccini, iniziamo proprio dallo stile. Il tuo è un esperimento davvero radicale, perché sopprime del tutto la componente narrativa e si risolve integralmente nel dialogo. È vero che la narrativa è costantemente dentro un paradigma dialogico, ce lo insegna Bachtin. Ma Avrai sempre vent’anni si spinge decisamente più in là rispetto al canone romanzesco classico: è dialogo allo stato puro, conciso, teso, trascinante. Incorpora tante suggestioni, e non solo narrative. Penso al teatro, anche se manca ogni riferimento a spazi, tempi, scena. O a importanti echi cinematografici, basti pensare a Bergman e alla metafora degli scacchi, anche se qui non ha un significato apocalittico. Ciò che spiazza e disorienta in questo dialogo è che esso raramente include anche elementi di descrizione ambientale e a un certo punto le due parti, il protagonista Luigino e il suo misterioso interlocutore, sembrano invertirsi. Quali sono le motivazioni di questa scelta stilistica?

N.M.:
Ho fatto del dialogo “assoluto” la mia forma espressiva principale e in questo contesto mi è venuto utile per esplorare a fondo la coscienza di Luigino. Il libro ha l’ambizione di far parlare Luigino quasi a nome di una generazione di giovani sognatori, di ragazzi capaci di pensare in grande. Così in grande che a volte, come succede a Luigino gli capita di non vedere cosa gli succede accanto, al lavoro, persino dentro casa.
Quando si vive di sogni e ci si occupa, come faceva Luigino, di politica e di sindacato, capita di dover fare i conti spesso con la propria coscienza in un costante, dinamico bilancio fra i propri valori e il proprio operato, quelle cose che la vita reale ci induce o a volte costringe a mettere in atto.
Il “misterioso interlocutore” sa fare le domande giuste per far emergere il non detto, il mai del tutto ammesso, quel che si è forse sempre paventato seppur larvatamente. Arriva un punto della vita, in cui certe domande te le fai e forse è giusto che a fartele sia proprio un giudice, anche se come il romanzo chiarirà non si tratta di un magistrato. Di quelli Luigino ne aveva conosciuti fin troppi durante il suo calvario giudiziario. A fare le domande è una autorità storica, interiore più che un tribunale. In questo senso il riferimento a Bachtin funziona sia perché concepisce la necessità di un intimo rapporto fra il personaggio e il contesto storico di un romanzo sia anche poiché afferma che la “vita è per sua natura dialogica, vivere significa partecipare a un dialogo”. Dialogo che coinvolge e interroga allo stesso modo sia l’autore che il lettore.

G.F.:
«Sì, ma… io non capisco perché stiamo giocando, né che partita sia» dice Luigino Reattino proprio all’inizio del libro. Qui la metafora degli scacchi allude alla vicenda esistenziale del protagonista, ridotta a un gioco al massacro, nel quale uno dei due giocatori deve necessariamente soccombere. Sembra quasi la metafora del destino storico dei giovani rivoltosi degli anni Settanta, stritolati negli ingranaggi di un meccanismo cieco e a loro ignoto. Luigino non sa e non saprà mai chi ha costantemente mosso i fili sopra la sua testa. È però consapevole di essere diventato una pedina nelle mani di forze internazionali in lotta tra di loro. È questa l’essenza tragica della stagione degli anni di piombo?

N.M.:
Io non credo che Luigino abbia mai avuto, neanche forse in punto di morte, piena consapevolezza di quali fossero stati i disegni e le macchinazioni (emerse fra l’altro dalle ricerche storiche e giornalistiche in una fase successiva alla sua morte). Così come non credo che la sensazione della presenza oscura e incombente dei servizi segreti intorno a lui, così come a tanti altri giovani coinvolti nell’ipotesi della rivolta (sebbene nel caso di Luigino e di tanti altri la rivolta era di intendersi nel suo significato politico e non come lotta armata), sia stata interpretata come manipolatoria e diretta a utilizzare i gruppi giovanili come pedine per interessi petroliferi e di controllo politico. Ritengo che i giovani di allora, i per sempre giovani di oggi, abbiano invece maturato la convinzione che l’apparato militare occulto dei governi si fosse mosso per fermare loro e non per altri scopi indiretti. Protagonisti quindi e non pedine, dal loro punto di vista. Il dubbio li afferra ma non li convince.

G.F.:
La partita a scacchi, nella narrazione, è anche l’emblema di una guerra di classe che finisce per diventare autodistruzione personale: la previsione delle mosse dell’avversario, ossessiva sia nella lotta armata sia nelle mobilitazioni giovanili degli anni Settanta, nella solitudine carceraria del protagonista si trasforma in partita contro se stesso. Sembra un’allusione alla progressiva perdita di senso della realtà dei rivoltosi, vista l’impossibilità di distinguere il profilo sfuggente del loro l’avversario.

N.M.:
Sì, credo che abbiano vissuto un senso di impotenza, avvertito sulla propria pelle, a seguito dell’ improvvisa e inaspettata risposta durissima dello Stato italiano iniziata con le indagini del rapimento Dozier, anche e senza dubbio per non deludere gli americani che si erano fatti sentire con la voce tuonante del presidente Reagan al telefono con Spadolini, nonché nel tentativo (e nel bisogno) di chiudere finalmente e in via definitiva la lunga e lacerante parentesi storica del terrorismo.

G.F.:
Quando il misterioso interlocutore accusa Luigino di essere il “grande vecchio” ‒ il leggendario burattinaio e regista della lotta armata ipotizzato dagli inquirenti ‒ lui prende coscienza di essere diventato un capro espiatorio. Quell’etichetta infatti è solo uno stereotipo d’accusa, che prepara il suo destino di vittima. Una semplificazione costruita a tavolino per occultare intrighi e responsabilità internazionali. Luigino si sente inchiodato anche a un altro stereotipo: quello giovanilista del rivoluzionario. Anche per questo – e non solo per la durata della sua condanna giudiziaria – avrà sempre vent’anni. Il titolo del romanzo ha un senso è volutamente ambivalente, pieno di un’ironia desolata. Quanto è importante la logica del capro espiatorio nella tua narrazione?

N.M.:
Se Luigino avesse chiaro o meno il quadro delle macchinazioni internazionali in cui si era ritrovato incastrato da uno Stato preso fra l’esigenza di chiudere la vicenda Brigate Rosse (senza possibilmente far emergere intrighi e coperture) e la necessità di fermare la spinta libertaria di Solidarnosh e del suo capo Lec Walesa, con cui era legato da personale amicizia, io non lo so.
Mi sono fatto tuttavia la precisa idea, anche ascoltando le interviste rilasciate a seguito del suo proscioglimento, che avesse ben presente se non la causa primigenia del suo dramma almeno gli effetti che essa aveva scatenato. Tutto il teatro dei burattini che intorno a lui ha recitato varie e diverse parti traendone visibilità e vantaggi personali.
La reazione di Luigino è stata incredibile e a suo modo meravigliosa: invece di incarnare i panni della vittima vendicativa si è come vestito di un saio francescano, lui è vittima sì ma il suo martirio smaschera il sistema mettendo a nudo le marionette, illuminando i fili e su fino a far cadere il velo sul burattinaio stesso. Adesso è lui che addita gli approfittatori e i lacchè i piccoli uomini che hanno, loro sì, tradito gli ideali rivoluzionari.

G.F.:
Avrai vent’anni tutta la vita rivela una marcata sensibilità verso il garantismo giudiziario, così forte nella nostra cultura democratica, da Verri e Beccaria in avanti. Luigino ha bruciato tanti anni della sua vita in carcere prima di essere prosciolto dalle accuse. Denuncia la particolare durezza usata dagli inquirenti e dalle forze dell’ordine con il commando che rapì Dozier. Alla fine diventa consapevole di essere stato usato e stritolato dalla Storia, perché la verità processuale e quella storica non coincidono. È ancora vero che la giustizia degli uomini può essere una fabbrica di vittime vicarie, che seppellisce sotto una coltre di mistero la verità storica?

N.M.:
Agli atti della commissione Mitropcin si legge una dichiarazione di Imposimato in cui evidenzia la differenza fra la verità giuridica e quella storica. La sola ipotesi lascia in effetti raggelati ad una prima valutazione ma se si considera che i procedimenti di formazione della verità giuridica si compongono di vincoli e frizionalità nell’uso di elementi probatori non sempre utilizzabili ai fini delle procedure processuali, allora le differenze fra le due verità non solo si palesano ma finiscono per creare quella “fabbrica di vittime vicarie” a cui si riferisce la domanda.
Questo tuttavia non giustifica la gravità di quanto è stato perpetrato ai danni di Luigino che tecnicamente non è infatti neanche configurabile come un errore giudiziario poiché non c’è mai stata sentenza, nessun giudice si è assunto mai la responsabilità di scrivere la condanna che comunque Luigino ha scontato con effetti devastanti sulla sua vita di uomo, familiare e professionale.
Fa dispiacere pensare che oggi siano ancora in auge ipotesi legislative che considerano gli errori e le omissioni commesse nell’esercizio fallace delle funzioni come un male necessario al perseguimento di una giustizia che espone il malcapitato cittadino alla gogna di una verità improvvisata e tattile funzionale alla circolazione di informazioni tattili spesso erronee ma tuttavia capaci di stroncare la dignità e la tenuta psicologica dei colpiti.

G.F.:
Luigino ha una personalità affascinante, sdoppiata e contraddittoria. Rivendica l’autenticità delle motivazioni ideali che lo spinsero ad aderire alle lotte degli anni Settanta. Il suo implacabile interlocutore-avversario negli scacchi-inquisitore insinua però che in realtà la sua motivazione più profonda e inconfessabile fosse un desiderio di visibilità. Forse l’uomo allude al fatto che i a un certo punto i protagonisti della rivolta giovanile furono risucchiati nella logica alienante del sistema mediatico: cercavano ossessivamente nei titoli dei giornali e negli annunci dei telegiornali il riverbero delle loro gesta. È esagerato considerare l’antagonismo politico di quel decennio come uno dei tanti atteggiamenti protagonistici tipici della società dello spettacolo?

N.M.:
C’è una frase di una canzone di Francesco Guccini che secondo me rappresenta al meglio la psicologia di quegli anni: “Avevo la rivolta fra le dita”.
La percezione di quei giovani uomini e donne in quegli anni è che da un lato stesse per esplodere il sistema capitalistico con le sue contraddizioni, dall’altro che la loro generazione era fatalmente investita del doversi far carico di affrontare la fase di transizione
Non credo che la percezione di vivere nella società dello spettacolo fosse così sentita in quegli anni: le bombe e le gambizzazioni erano vere, gli attentati ai politici, ai presidenti del consiglio i rapimenti dei generali come Dozier erano fatti, non post acchiappa like. Il livello di coscienza critica fino a quegli anni si scontrava sempre con la realtà, col sangue, col terrore. Lo spettacolo era l’orrore vissuto nelle strade, purtroppo quasi ogni giorno.
Certo l’egocentrismo e la voglia, direi il bisogno, di stare al centro delle vicende era comunque presente, solo aveva canoni molto più rigidi di valutazione. Molto più concreti.

G.F.
A seguire le vicende intime di Luigino, sembra che neanche l’amore si sia salvato dalla grande strumentalizzazione messa in piedi dai poteri sovranazionali in lotta fra di loro. Il suo interlocutore gli ricorda brutalmente che la sua donna aveva contatti con gli agenti, faceva la spia. Neanche l’amore può essere un’alternativa alla logica totalizzante della ragion di Stato?

N.M.:
Il rapporto fra Luigino e quella donna è frutto di una mia ricostruzione.
Di certo lui deve aver vissuto una delusione molto profonda. Io ho cercato di comprendere il sentimento di Luigino, quello che può aver provato. Sono consapevole che la stessa vicenda possa essere raccontata in maniera diversa, opposta. Ho scritto un romanzo.

G.F.
Gli anni di piombo nel romanzo diventano l’emblema del caos e della perdita del senso in cui sembra essere precipitata la storia italiana. Luigino afferma che lo Stato si è comportato in modo spietato con i rapitori di Dozier e non altrettanto con quelli del presidente Moro. Si chiede angosciosamente quale sia stato veramente l’obiettivo dello Stato, visto il suo atteggiamento apparentemente contraddittorio e sfuggente. Può esserci anche questa ambiguità alla radice della ben nota sfiducia dei cittadini italiani verso le istituzioni?

N.M.:
Luigino (il personaggio del romanzo) dice il vero quando afferma che per liberare Dozier si sono attivate pratiche illegittime come il ricorso alla tortura di Stato. Illegali ma attuate dalla Polizia dentro le questure e ammesse dagli stessi protagonisti di quegli episodi raccapriccianti, raccontate peraltro con dovizia di particolari.
Gli obiettivi dello Stato sembrano essere stati diversi, prima e dopo Moro, nei confronti del terrorismo o almeno diversamente interpretati. La vicenda Dozier sta a dimostrare che si è prodotto maggior impegno per liberare un generale americano che non per il Presidente del Consiglio e leader indiscusso di una maggioranza politica che, con il compromesso storico, si stava apprestando a rappresentare la maggioranza assoluta del paese.

G.F.
Il consuntivo finale della storia è amaro. L’esistenza del protagonista è un deserto: tutto ciò in cui ha creduto, tutta la sua vita sembra essere stata afferrata e trascinata in una partita crudele, che si conclude con uno scacco matto. Eppure, in lui brilla ancora una luce: la consapevolezza di aver lottato per amore dei propri ideali, anche quando la Storia li ha usati e falsificati in modo astuto e cinico. I suoi ideali sembrano parole vere beffardamente inserite in un discorso falso confezionato da altri. Per questo il protagonista disprezza non pochi suoi ex compagni di militanza, che si sono venduti all’avversario ideologico, buttandosi nel carrierismo borghese. C’è riscatto per Luigino, o tutto viene travolto dallo scacco finale?

N.M.:
La generazione di Luigino è stata spazzata via dal palco del teatro della storia del paese. Qualcuno ha cambiato ruolo ed è stato capace di riusare la brillantezza e la lucidità di visione che aveva acquisito, per altri scopi o altri ideali. Molti si sono persi nello specchio opaco del proprio quotidiano. Se ci parli ti capita di riconoscere uno stile, a volte nel linguaggio a volte nel modo improvviso e spiazzante di reagire ma negli occhi di questi eterni ragazzi la luce è ormai fioca. Buona forse per vedere ma non più per mostrare e illuminare un orizzonte.
Con Avrai vent’anni tutta la vita ho inteso di cercare di riaccendere una luce non tanto su quegli ideali pacifici, viziati anche forse dall’ideologia del tempo, ma almeno sulla voglia di credere che si possa cambiare e non solo tentare un ipotetico e distratto miglioramento.

G.F.
Due parole ancora sul misterioso interlocutore del protagonista. Fin dal principio della narrazione ha un profilo enigmatico. Luigino sospetta che sia uno della corte. Non ha tutti i torti: ha un atteggiamento da inquisitore, cerca di estorcergli informazioni attraverso discorsi strumentali. A un certo punto, però, l’uomo dice in modo molto sibillino: «Ripeto di non avere mai detto di non essere un giudice. Solo non sono della corte, tutto qui.» Da questo momento in poi l’oscuro giocatore di scacchi sembra sempre più uno sdoppiamento di Luigino, la sua coscienza riflessa. I due personaggi sono la dissociazione della stessa persona? 

N.M.:
Nel fondo di una cella, nel profondo della tua notte illuminata a giorno ventiquattro ore al giorno giochi a scacchi contro te stesso e impari a “fregarti da solo”, figuriamoci se riesce a fregarti chi cerca di “armare contro te stesso te”.

 

GIOVANNI FALSETTI è nato a Macerata nel 1967. Insegna filosofia e storia al liceo.

Ha pubblicato i romanzi: Una ventata di follia (2005) e Piaceri sconosciuti (2010) per Robin Edizioni, Roma, e i libri di poesia Convivio dei poveri, Flaminia, Pesaro, 1998 e Il forestiero e i monti azzurri”, In forma di parole, Bologna, 2004. È anche autore di saggi di estetica come Stravinsky e la violenza nell’arte, La poesia dialettica di Luciano Roncalli, pubblicate su riviste italiane e internazionali.

Nicola Mariuccini (Umbertide, 1966)
Nel 2015 ha pubblicato La prigione di cristallo, romanzo incentrato sulla questione del femminicidio nell’orizzonte storico della Grecia dei colonnelli. Nel 2017 la sua seconda pubblicazione, con Castelvecchi: Nighthawks, un romanzo ambientato in Portogallo con una retrospettiva storica sulle vicende del regime salazarista.
Nel 2018 esce, sempre per Castelvecchi NIÑOS, sulla drammatica vicenda dei bambini rubati nella Spagna di Franco. Nel 2020 pubblica per lo stesso autore Avrai vent’anni tutta la vita.

 

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