Approfondimenti
BEER SHEVA-LAS PALMAS
Il vicolo ha l’asfalto ingrommato d’olio bruciato ed escrementi. Una coppia di ragazzi ciechi sta ora ballando di fronte a una casa in costruzione. I loro movimenti, e il loro mostruoso sorriso di ciechi, sono coperti dal sangue di neon proiettato dall’insegna del bar. Sulla facciata dell’edificio in costruzione, un graffito: un disegno semplice e preciso, tracciato con gesso bianco nella stilizzazione di un corpo femminile nudo. Graffiti osceni, d’altra mano, lo sfregiano: dissezioni del corpo virile, falli, scroti. Lo oltraggiano, e tuttavia ne potenziano la luce, vanno a formare una figurazione più complessa e baluginante sotto il sangue artificiale che trema nella parola Shem dell’insegna. In questa nuova figurazione ciò che è del maschile è un corpo a pezzi la cui morte volgare trova accoglienza -lume precario e assoluto- tra le linee sottili del disegno muliebre, dolcissimo sui mattoni e sulla malta fresca. La nuda pace della prima immagine persiste, mantiene solitudine, dona spazio e oggetto al miraggio violento d’una Lingua pornografica: l’accettazione, nello spazio del proprio senso, del graffito opposto e oltraggioso è un prodigio di cui il tema femminile capacita il graffito originario, e la figura rimane intatta nell’incisione della sua luce. Il reclamo maschile si disarticola in bestemmia, per sofferta appropriazione ano-bucco-genitale: a dire la scomparsa del volto come principio unitario del corpo in luce e in voce. L’appello disperato al corpo femminile trova un luogo e una cassa di risonanza la cui reattività in accogliere uccide miserabilità e violenza. Il sentimento della commiserazione si estingue nel modo in cui l’occhio esaurisce il proprio corpo nella fiamma dell’immagine, e ciò che va a formarsi, nell’impari intreccio dei graffiti, nella monta d’un segno sull’altro, è un soma nuovo la cui facies è statica, accogliente, passiva a vidimare il rogo dell’oggetto sul ghiaccio dell’indifferenza. Nel disegno la figura femminile sorride, in ginocchio, il busto eretto e le braccia rilasciate lungo le cosce, le palme delle mani rivolte verso l’esterno. Le cosce divaricate aprono il sesso che è tracciato da due brevi linee a scostarsi e ricongiungersi descrivendo una crespatura turgida. I capelli non sono neppure accennati, come per un desiderio di estremo denudamento. I capezzoli divergono e l’asimmetria nel disegno delle iridi emette un segno a vuoto, apre. Sulle labbra socchiuse il peso urlante del glande tratteggiato dall’altra mano. Ancora un fallo è puntato contro il ventre. Di lato, all’altezza delle cosce, è delineata una bocca o una vulva che ingoia un sesso maschile. Al maschile appartiene un crocifisso al diapason della passione, la distrutta nobiltà del simbolo Pietas supplicato dinanzi all’altrove in cui persevera l’altrui sorriso. La sovrapposizione dei graffiti va a formare una imago pietatis in dissonanza e asimmetria, dove un mite sorriso accoglie lo stupro. Mentre la coppia di ciechi ha terminato il ballo e ascolta gli applausi provenienti dalla soglia del bar.
(Beer Sheva, giugno 1998)
Ormai Las Palmas è solo uno dei nomi del mio inferno. Un altro nome del mio inferno è Ianus Pravo. Io mi aggiro tra la città e il mio nome cercando un angolo riparato in cui togliermi di mezzo. Cerco un muro. Un muro lo può essere anche un gesto. Stanotte, in un bar vicino alla spiaggia, una ragazza ballava di fronte al suo uomo. Poi è successo qualcosa, lei si è violentemente allontanata verso l’uscita, ma si è fermata, è tornata verso l’uomo ricominciando a ballare, ma questa volta in un gesto di sfida. Era molto bella, e muoveva il corpo come un insulto, come un muro. Io tastavo con le dita il cerchio umido lasciato sul tavolo dl mio bicchiere. Gli occhi li mantenevo sulla ragazza che ballava, e intanto disegnavo immaginariamente sul tavolo, intingendo le dita nel liquido, un corpo di donna. Il volto, i seni, i fianchi, senza guardare ciò che facevano le mie dita. Poi, sempre senza togliere lo sguardo dalla ragazza danzante, cancellavo immaginariamente l’immaginario disegno con un tratto trasversale. Mi portavo alle labbra le dita umide. Mi sono alzato dal tavolo, ho pagato e sono uscito dalla bolla di luce del bar. Ho oltrepassato la linea tracciata dall’illuminazione pubblica sul lungomare e mi sono immerso nell’oscurità della spiaggia. Delle risa provenivano dalla mia sinistra, ma non potevo scorgere nessuna figura umana. La poca luna era coperta dalle nuvole in costante movimento, a volte la luce filtrava da uno squarcio e faceva vibrare d’argento la nera massa sussurrante del mare. Il mare era come un muro orizzontale, come un pavimento, che è il muro dei prostrati, di coloro che pregano, di coloro che ascoltano, il suolo che è il cielo di coloro che pregano. Sono avanzato tra le onde che morivano nella sabbia. Il mare mi appariva come un muro penetrabile, che ti chiede di essere muro tu stesso, che non ti offre riparo ma bellezza.
(Las Palmas de Gran Canaria, giugno 2012)
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