Campi d’ostinato d’amore di Umberto Piersanti

Campi d’ostinato d’amore di Umberto Piersanti, Ed. La nave di Teseo, 2020
a cura di Franca Alaimo 

 Remoto, Immenso, Antico: tutti con la lettera iniziale maiuscola, non più aggettivi ma figure assolute, alimentate dalla memoria che recupera le dimensioni fiabesche dell’infanzia, trascorsa tra ripetute epifanie di bellezza e storie leggendarie, di quelle che trasformano la realtà in altra cosa, tutta da immaginare.

 E c’è tanto azzurro nei versi di Piersanti, «il colore più profondo e più immateriale, l’intermediario della verità, la trasparenza del vuoto presente nell’aria, nell’acqua (…) Zeus e Jahwéh poggiano i loro piedi sull’azzurro» (G. Heinz-Mohr); sgorga dagli occhi della madre, colora la gonna della ragazza riversa sull’erba mentre si dona amorosamente, fa sfavillare la corriera che spunta dalla calza della Befana «lunga, / con finestrini / e tutta azzurra / come quella vera / al Mercatale» (Befana 1947), fa da sfondo a tutti i paesaggi che si stendono e sembrano non finire mai, dà luce ai mesi («settembre azzurro, / azzurro più di sempre»; e «l’aria è gonfia e azzurra, / aria di maggio»), quasi un fiotto di gioia che è dei sensi e dell’anima, ma anche una sospensione onirica; perché ciò che viene destato dalla memoria diventando oggetto del canto poetico, quanto più lontano nel tempo e nello spazio, tanto più possiede quel “vago” leopardiano che si apparenta al suo significato originale (wandering), generando stupefazione e grazia.

 Che poi i testi di Piersanti, per l’abbondanza e l’esattezza della nominazione di piante, fiori, animali, potrebbero costituire una mappatura zoologico-botanica dell’amato altopiano delle Cesane, non smentisce quella vaghezza, anzi la sottolinea grazie alla quantità dei dettagli che stimolano l’immaginazione assai più dell’uniformità. Non per nulla Calvino afferma in una delle sue Lezioni Americane che esattezza e vaghezza sono parole che si chiamano a vicenda.

 Perfino i fatti storici relativi alla seconda guerra mondiale si aureolano di fiabesco, non solo perché lontanissimi nel tempo o filtrati attraverso la narrazione di altri, ma perché visti da quella fiduciosa disposizione infantile verso la vita (sia pure nel tremore della paura) che li alona di un’aspettativa innocente, che un solo gesto d’amore basta a placare, come quando, l’elmo calato, in un gesto di tenerezza che ricorda quello di Ettore verso il figlio Astianatte nell’Iliade omerica, il padre del poeta lo stringe tra le braccia: «tu fuori della Storia / nell’abbraccio del padre / solo e felice»; verso che, fra l’altro, richiama il testo “Dentro il Presente” (nella sezione Vicende), che si colora anche di un intento polemico nei confronti di certa critica che ama solo la poesia d’impegno: «anche questo è tempo / dove parlare d’alberi / appare un delitto / perché su troppe stragi / comporta il silenzio?», domanda il poeta, offrendo una giustificazione relativa ad una personale visione della poesia, come espressione di uno stare nel tempo squisitamente emotivo, sensoriale, coincidente con il sapore «entrato per la gola / giù nel sangue», e che gli fa guardare i luoghi dell’adesso come una proiezione o una reinvenzione del passato, (così come fa Leopardi che, mentre guarda la luna dall’alto del monte Tabor rievoca quella ammirata un anno prima): «mentre guardi il Carpegna / annuvolato, passi lento / tra ornelli e ginepri, / da forestiero cammini / dentro il Presente». Così come chi contempla ricordando.

 La Storia, insomma, quella con la esse maiuscola, risuona in quella privata come una eco di gesti e sentimenti («tu non sai / le vicende e le figure, / solo suoni e colori ,/ non li ricordi»), di apparizioni non meno incantatorie: è il soldato austriaco che dona la sua borsa ad una delle due sorelle dell’autore; è la certezza dell’amore dei genitori che lo fanno dormire in mezzo, mentre di notte cadono le bombe; è il soldato che scende piano dalle Cesane; è un succedersi di gesti inconsueti un movimento di persone, viste e poi sparite nel grande Vuoto. Solo quando le indefinite e perfette immagini, le vivide e remote, le vere e sognanti, quali sono le epifanie, entrano nella pronuncia poetica, il tempo si arresta sulla soglia, e ha inizio qualcosa che somiglia all’eternità: «tu pensi al giovinetto / che hai lasciato / per sempre camminare / in quel sentiero».

 La “soglia” di Piersanti è anche l’insegnamento che il figlio autistico Jacopo ogni giorno gli consegna; il figlio amatissimo che invoca con tenero e doloroso amore, «figlio delicato», come la Madonna nello Stabat Mater di Jacopone da Todi; Jacopo «così lontano», «Jacopo del riso e dello sconforto». Ché il male sta sempre in agguato («il male è dentro l’aria, / copre la terra») a cominciare dall’infanzia: è la biscia che si nasconde ed è sempre pronta a mordere la mano, è la notizia che lassù al Convento sono tutti morti (Giugno 1944); è il piombo che non raggiunge le palombe, che «scendono giù al mare», è il leggendario cane nero che balza all’improvviso e semina terrore, sono i grovigli di spine, il falco assassino, il terremoto.

 E però nell’indietraggiare, nella distanza, nell’entrare «negli altri evi», sta il segreto della gioia, che sostanzia i versi di Campi d’ostinato amore : le figure dolci dei genitori, che «hanno quei nomi immensi / del Vangelo», le sorelle, le ragazze amate, i pastori malinconici che somigliano a quelli del Tasso, i paesaggi, la famiglia degli animali e delle piante, la casa infantile vi restano come sospesi, tanto che può accadere, come in un quadro di Chagall, che «s’alza tutto / lento nel cielo, / alberi, case, agnelli / e l’intera Piantata, il Fontanino, / le Cesane immense / su nell’aria, / oltre la luna”.
 Il miracolo della poesia accade in un sempre senza fine, dentro uno stupore inestinguibile d’infanzia: ha come simbolo il fiore del favagello, che la sorella libera dal gelo della neve: «e nella stessa ora / l’altra sorella / libera dalla neve / un favagello» (Febbraio 1941).

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