Da David Nebreda a me

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Nel mostrarsi di David Nebreda, lacerandosi la carne con un coltello, imbrattandosi di merda, ustionandosi le mani con la fiamma ossidrica, spargendo orina sul letto in cui riposa dalla tortura autoinflittasi, vi è intenzione, volontà, espressione, significanza, identità, spettacolo?
Vi è vitalismo e umanesimo (seppure, e più ancora, nell’oltraggio)?
Non vi è arte, poesia, creazione che non riposi nell’abbandono, nell’incidente linguistico, nella forza dei significanti liberati dalla museruola dei significati. Eppure l’inintenzionalità presuppone un intento lucidissimo, l’abbandono è predisposto da una volontà fortissima, lo spensieramento è frutto dell’esasperazione del pensiero. Il difforme che è poesia nasce dal decor della forma, il riposo dell’io dalla estenuazione feroce del soggetto.
David Nebreda si è cancellato dal mondo, si è recluso in una misteriosa abitazione nel centro di Madrid, dedicandosi all’autoflagellazione. Manca la santità per le schegge di luce che respinge da se stesso, attraverso la fotografia, in direzione degli osservanti sociali. Ma non è la santità che sta ricercando. Egli, attraverso una attenta procedura, predispone la stanza del suo orrore, il giardino delle sue e mie delizie (dovrebbero essere anche vostre, ma non m’impegno a convincervi), cura l’illuminazione, sceglie gli strumenti, le armi del suo ferimento, la scenografia radicalmente claustrofobica ed ergastolaria, le tecniche, per quanto semplici, della riproduzione fotografica: allestisce lucidamente un progetto di sè e di abbandono di sè, fin qui tutto è volontà, e identità, dispiegamento dell’io.
Ma ciò che succede, nel farsi dell’opera e nell’opera realizzata, va oltre tutto ciò: in Nebreda come in qualsiasi vero artista. I significanti proliferano come cancri, l’autore umano non c’è più, non ne è più il soggetto, se non nell’accezione di assoggettato. Abbiamo davanti a noi un corpo esposto a un serissimo dileggio, al poema della sua vulnerabilità, ma non vi è sussulto emotivo, non vi è chiamata all’empatia. Vi è uno ieratismo della carne come “viande”, non certo come “chair”. Oltre l’intenzione, l’opera si erge contro l’osservante che sussulta, si commuove o si indigna davanti alla carne lacerata, arsa o smerdata, semplicemente perché guarda, e lo sguardo è la merda che segna riprovevolmente la bellezza. La merda è semplicemente il segno che lo sguardo lascia sulla bellezza.

E da Nebreda a me, a “Moleskine dell’errore”. Per chi saprà capire.

La Senza Nome sta ai piedi del letto, una spalla appoggiata al materasso, e mi dà la schiena. Le gambe piegate a formare col tronco una “esse”. La testa, guardando dalla mia posizione, sembra scomparsa, caduta dal collo, sotto l’ombra dei capelli. Mi avvicino, la chiamo, per la prima volta, “Senza Nome”. Non risponde. Affondo la mano tra la spalle e la matassa cupa dei capelli, la passo sotto il mento e le sollevo piano la testa. Non respira.
Nella cucina trovo un barattolo di miele. Il latte l’ho appena comprato, con il pane. Le immancabili, piccole mele verdi, e, in uno stretto e lungo vaso di vetro, al centro del tavolo, dei fiori di cui non so il nome. Hanno petali bianchi, a ferro di lancia, divisi a metà, nella longitudine, da una sottile linea di color carminio. Taglio il pane fresco, il cui corpo, sotto la pressione della lama, si piega per poi riergersi nella sua torre tranquilla, riaprirsi alla sua forma come il calice di un fiore nell’estate. Con un cucchiaio di legno spalmo sulla fetta di pane le grosse gocce ambrate del miele, cadute sulla mollica dalla conca dell’utensile con la pigrizia di una lacrima, con la pesantezza del tempo. Riscaldo il latte sul gas, nella tazza la superficie bianca suppura una pelletta che spezzo con un leggero colpo di cucchiaio, facendola vibrare in lacerti. Latte, miele. Anche fiori. È una celebrazione, modesta e con un pó di ritardo, della Shavouot, la Festa del Raccolto. E il ricordo del dono della Legge. In questa solitudine, con questo fuoritempo, che parodiano, che cantano intorno al dono della Legge, che dicono l’allegria della legge, del mio diritto –o rovescio?- di affacciarmi sul crogiolo della morte e adorare la linea di quei poveri occhi chiusi, di gettare nel cesso la misericordia e conservare la ferocia d’una Pietà bianca, gelida -di ubbidire a un royaume blanc. L’oro del miele e del pane, il bianco del pane e del latte. Il bianco dei fiori, la sottile vena rossa che li attraversa. Il bianco del miele, il bianco della bocca. La vena bianca, di sangue bianco, sul petalo bianco. Bianco. Bianco. Bianco. O davvero nel nero totale, o nel gran biancore immutabile. E, col sale bianco incrostato nelle rughe. La mia Legge, che provvede alla partizione (nómos, némein, dividere) del mio Luogo, tra il refettorio di un’Ultima Cena e il talamo d’Ade in cui ha ricovero la Senza Nome.
(Talamo d’Ade, come Euripide definì, in Ecuba, l’Europa. I grandi occhi aperti sull’Incompreso. E gli occhi ancor più grandi, accecati, di Polinestore, re dei Traci, punito da Ecuba per averle ucciso il figlio Polidoro, gli occhi bianchi che toccano le urla interminabili di una cagna).
Il mio Luogo che è un punto in bilico tra il deserto e la città, un punto in comune tra Sciro e Troade, un limite condiviso, uno spazio che non è questo e non è quello, una porta, entri ed esci. Un non-Luogo. La mia Israele, patria di parole, come per Jehudah Halevi, o ancor di più, delle parole non dette, del segreto non rivelato da Abramo a Isacco, del segreto mantenuto tra Abramo e Dio, il mistero del nulla su cui si fonda il patto tra il celicola e l’uomo, da cui si sparge l’ozio macchinale del volto del dio sulla pace dell’etica verbale. Così il luogo delle Tavole della Legge d’Israele non è Sinai, è Moriah, sonoTavole Bianche. Un luogo le cui tavole della legge sono tavole bianche.
Nella conca della tazza, la pellicola lasciata dal latte riposa lacerata come una rete bianca gettata sul bianco. Sul tavolo, ho ammonticchiato le briciole del pane, ed ora le trascino con il palmo della mano verso un angolo, attento a che nessuna si perda e diminuisca la forza del mucchio. Apro un quaderno, e scrivo la data di questo giorno. Su una mensola, appesa al muro, una serie di lattine o vasetti di spezie ed erbe secche. Un grappolo di teste d’aglio, e sulla porta del frigorifero c’è attaccata la riproduzione fotografica del “Giovane con canestro di frutta” di Caravaggio, della Galleria Borghese di Roma. Dalla sedia si sta staccando una treccia di vimini. Un libro di Aristofane è aperto su un’altra sedia in legno verniciato di rosso. Nel lavandino ho gettato il cucchiaio che ancora contiene, nel suo fondo, una densa goccia di miele dorato. Questa stanza non ha muri: ha fratture d’oggetti, una catena di gesti tenui, che si allontanano dallo sguardo quanto più delimitati nel cadre dell’attenzione. Nella stanza da letto, nel talamo d’Ade, dinanzi a me si erge invece, d’abbandono, il corpo di Senza Nome come un muro insormontabile. L’ho disposto su lenzuola pulite. S’era portata da Eilat un medaglione con uno zaffiro, e aveva iniziato a portarlo stretto al collo con una striscia sottile di cuoio. Ho trovato questo modesto gioiello per terra, vicino alla siringa. L’ho raccolto e gliel’ho allacciato perché le pendesse come un occhio freddo dalla gola bianca.
Nel Museo Zoologico della Specola, a Firenze, c’è un’opera in cera dello scultore del settecento Clemente Susini, dal titolo “Venere dei medici” (è evidente il riferimento ironico alla “Venere dei Medici”, opera in marmo d’anonimo greco o romano, risalente al I secolo a. C., custodita nel Museo degli Uffizi). L’opera rappresenta una Venere distesa, i sensi abbandonati, su un drappo di seta, sopra un divano di velluto. La testa è lievemente inclinata verso la sua spalla sinistra, il mento rialzato. Gli occhi, di vetro, sono socchiusi, cedono al sonno. La peluria delle ciglia è vera, e veri sono i capelli neri e lunghissimi che le percorrono le spalle e raggiungono la curva dei glutei. È autentico il vello del pube. È adornata con una collana di perle autentiche. La scultura è in scala naturale, la cera è modellata mirabilmente e restituisce una sensazione di calore dal rosa vivido in cui è rappresentata la totale nudità. Questa Venere ha una speciale caratteristica: è smontabile: lo sperimentatore o lo studente di medicina può tranquillamente aprire quella carne offerta, alzarla come il coperchio di una scatola, per trovarvi un’altra carne. La “Venere dei Medici” è un giocattolo scientifico e divino: posando le mani sui fianchi o sui seni , e forzando un poco, ci si trova di fronte a una brulicante popolazione viscerale, alle reti fibrose dei muscoli, al meccanismo cardiaco e al dominio illuminato del sangue. La bellezza si può smontare, farla nulla fino alla cosa della sua immagine.
Da viva, la nudità di Senza Nome era aperta, impudica come la Venere di Clemente Susini. Nell’immagine di cera, prima che sia spalancata sulle sue viscere, è visibile un sottile solco che parte dal pube e si prolunga, salendo il fianco, fin sotto l’ascella. E ci si rende conto, guardando bene, che la collana di perle, gioco di cecità, serve a mascherare il taglio che segue fedelmente la mezza luna del collo: sono i segni dell’apertura che verrà. I segni sul corpo vivo di Senza Nome, non tanto freddi, non tanto esatti (gli ematomi, le incrostazioni di sangue sul latte della carne, i buchi slabbrati sulle braccia e sui piedi), erano le indicazioni, sporche, vagamente tragiche, estremisticamente teatrali, dello squarciamento della nudità naturale, il gesto del denudamento del nudo. Ora, da morta, la cera spenta che raggruma sul mio sguardo l’immagine bianca del mio perduto guardare la linea di quei poveri occhi chiusi, che bianco mi restituiscono -questa cera gelata dal guardare: per quanto io, le mani a palpare i tendini sulle caviglie, allarghi il compasso di quelle gambe pallide spruzzate di rosso quasi nero, perché il sesso appaia aperto nella luce oscillante della lampadina che pende dal soffitto: questa cera vivente fuori dell’uomo, insensata, ha un gesto di timidezza, una linea di fuga, uguale, per opposizione, alla pudicizia di quell’altra Venere, la “Venere dei Medici”, la Venere degli Uffizi. In quest’opera, la dea è rappresentata mentre con la mano destra si copre il seno e con la sinistra cerca di nascondere il pube. Il capo è volto verso sinistra, forse perché un rumore l’ha messa in allarme. La presenza della Venere greco-romana e l’assenza di Senza Nome non sono forse i movimenti contrari d’una stessa decenza?
Nella Venere degli Uffizi ricordo (non ricordo, immagino il vero del desiderio) sulla vena di lesione cromatica del marmo, come una spezzatura e una giunzione appena percettibile delle braccia, ricordo il taglio, sporcato, che sulla Venere della Specola indica la presenza del cielo viscerale soggiacente. Ma il taglio è appunto sporco, sporco d’immaginazione. Lurido di restaurazione del desiderio del pudore (di spezzatura e giunzione, di oscenità e pudore). In un’altra Venere pudica, l’ “Afrodite del Mare” del Museo Archeologico di Rodi, le braccia spezzate non sono state recuperate: il gesto di modestia (originariamente lo stesso della Venere degli Uffizi) si realizza solo in parte, col movimento del capo verso il rumore allarmante. Il corpo rimane completamente esposto per un movimento di pudore senza braccia. Niente restaurazione, nessuna immaginazione: non vi sono oscenità e pudore. Vi è l’osceno del pudore. La Senza Nome senza vita.

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