Approfondimenti
Davanti alla legge [Franz Kafka]
a cura di Lisa Orlando
Ogni volta che si parla di inaccessibilità della legge, vien in mente quel racconto di Franz Kafka che diede luogo ad una vera e propria esegesi talmudica: Davanti alla legge. Racconta la storia d’uomo di campagna che, giunto dinanzi all’ingresso della legge, si scontra col dissenso d’un guardiano che, categoricamente, gli impedisce l’accesso. Per anni l’uomo attende, tuttavia urtando contro l’implacabilità del rifiuto.
Al fine, infiacchito, invecchiato, dall’invernale fuliggine del tempo, l’uomo, ch’era stato il solo ad aver reclamato l’accesso, ottiene la seguente risposta: «Nessun altro poteva entrare qui poiché questo ingresso era riservato esclusivamente a te. Ora vado a chiuderlo». E’ l’inaccessibilità della legge; è il suo mistero; è l’opacità della sua origine, dirà Derrida.
Nondimeno, se oscuro è il suo punto d’inizio, la fine è conosciuta, ovvero: alle soglie della morte dell’uomo di campagna. Così, il racconto, pur se con brevità, evoca ineluttabilmente il tempo che passa… “Il guardiano gli dà uno sgabello, lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni, per anni.[…] durante tutto il tempo l’uomo osserva il guardiano senza interruzione. […] poi, quando invecchia si limita a brontolare. Rincretinisce”.
La legge, dunque, non si lascia conoscere; l’accesso resta ineluttabilmente chiuso; né il racconto riesce a rivelarci di più; solo, replica, ricalca, raddoppia (per inclinazione a un accrescimento?) il mistero della legge. Tra l’altro, non si viene neppur a conoscenza di che legge si tratti: morale?, giuridica?, naturale?
Si può immaginare, pertanto, che ciò che resta invisibile in ogni legge sia la legge stessa. Questa si dà rifiutandosi, senza mai rivelare la sua origine. Il silenzio stesso è, dunque, il tessuto costitutivo della manifestazione della legge. Secondo Derrida è in questa visione che deve leggersi il racconto di Kafka: intendere l’impossibile accesso della legge come “fondamento mistico”. Tra l’altro, componente essenziale d’ogni legge è la sua sovranità; è che noi dobbiamo necessariamente sottometterci a essa.
Nessuno sa, del resto, per quali ragioni l’uomo di campagna si sia inoltrato fin a quella porta. Per fornirsi di un senso? Per coprire il sentore del nulla? Per il timore della morte? Per non diventare folle? Del resto, si è realmente certi che voler “entrare nella legge”, come ribadisce il racconto, sia un intento legittimo?
Tuttavia, la smania di rendere visibile il mistero è lampante, è ineluttabile. E perdura, per tutta una vita. L’uomo di campagna (in un’ansia di trascendenza?) vuole penetrare nella legge, vederla, toccarla. La sua pulsione è irresistibile, e si dissolverà solo con la morte. Forse perché (nel continuo assillo del nulla) spingersi fin nel mistero della legge renderebbe la vita meno angosciante?
Eppure l’uomo di campagna alla fine impazzisce. Perché, in fondo, sottomettersi alla legge significa innanzitutto accettare il suo mistero, n o n violentarlo a tutti i costi (ché ogni radicalismo è dannoso) n o n forzarlo, n o n violarlo.
La continua pulsione spinge gli uomini a penetrare in esso, tuttavia resistere a tale spinta pulsionale significa andare contro natura: sopportare il vuoto; vivere il Mistero anzitutto come esperienza del nulla, non esercitando alcuna forza. Ovvero, ciò che gli uomini mai hanno ardito fare; istruendosi m a i a venir meno a quella superbia di potenza, che sopraffa, che profana, che invade, e tutto vuole dominare.
[Mi piacerebbe (ora) immaginare l’uomo di campagna (ora), alzarsi dallo sgabello (ora), salutare il guardiano; chinare il capo e andare via – allontanandosi dalla porta della legge…]
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