Recensioni
Deriva di Carlo Sperduti: poesia non euclidea, ipercubi e poetica della confusione
Recensione di Alfonso Lentini
Un essere femminile di nome Sofia, molto affascinante ma dotato di coda, scaglie, zanne, uncini ed altri inquietanti particolari anatomici. Una grande libreria dove puoi trovare «la letteratura curva, quella retta (…) quella periodica, la narrativa ortogonale, quella distante, i romanzi centrifughi e quelli centripeti, i libri paralleli, la poesia non euclidea e la saggistica sghemba». Una donna, Filomena, che si appresta a diventare un luogo. Istruzioni per far partorire le colline dopo novecento anni di gestazione. Scenari futuribili da post-lockdown dove si può sospettare che «tutta l’epoca dei contatti (…) fosse un gigantesco falso storico». Corpi che esplodono all’improvviso senza apparente motivo. Un villaggio turistico che ospita una sola persona. Tutto questo e molto altro ancora è raccontato in Deriva, il nuovo pseudo-romanzo di Carlo Sperduti: una scrittura iper-precisa nella lingua e nella struttura narrativa, ma multidirezionale, cangiante, accesa di visioni spiazzanti, fondata – come dice lo stesso autore – su una rigorosa “poetica della confusione”.
«Finché ci sarà una lingua, bisognerà sforzarsi di raccontare ogni storia possibile, comprese quelle impossibili». Un libro volante, dunque, in fuga dalla banalità del percepire comune. Ma il bello di questo libro volante, è che non lo si può leggere volando, non si presta cioè a una lettura approssimativa. Se ti metti a leggere, a primo impatto ti disorienta, poi ti inchioda. Sembra un labirinto, se leggi volando, ma labirinto propriamente non è; o meglio: se è un labirinto, lo è in quanto percorribile secondo geometrie definite, pur se, forse, non euclidee. E, attento, la via di uscita non si trova ai suoi bordi, ma al centro, nel buco di un imbuto. C’è un cammino da compiere, ed è lo stesso libro a insegnartelo, se non lo leggi volando. Che poi questo cammino sia un percorso franoso o fittizio, poco importa. Di più importa notare come l’autore sia capace di tirarsi dietro il lettore, tenerlo sveglio, disseminando le pagine di certi “segnali” (o falsi segnali?) che emergono solo se la lettura si fa attenta, ad alto livello di focalizzazione. Anche quando non portano direttamente a uno sbocco, questi segnali intrigano e sfidano il lettore a risolvere una specie di indovinello forse privo di soluzione. Le pagine dunque richiedono un ascolto attentissimo, parola per parola, anche quando le frasi sembrano farsi svagate e il racconto farsi via via indefinito. Anzi, è proprio nel mezzo di quelle che possono sembrare divagazioni o sfocature che invece si trovano precisi indicatori. Come il primo, ad esempio: un gigantesco “monumento all’ago peridurale”, alto ben sedici metri, che campeggia in un villaggio turistico dove va a rifugiarsi il “collezionista di capelli” Gambino, uno dei personaggi principali della storia.
Ma in Deriva la narrazione si fa subito triforcuta e si scinde in quelli che a prima vista potrebbero sembrare tre indipendenti comparti o scatole narrative. Che, invece, del tutto indipendenti non sono; e infatti, attraverso i suddetti “segnali” disseminati qua e là, la voce narrante pratica come dei forellini sulle pareti delle tre scatole, crea vasi comunicanti, apre a sorpresa misteriose finestre che mettono in rapporto i tre ambienti narrativi assecondando il sospetto che la triforcuta narrazione altro non sia che una rappresentazione multiprospettica di un un’unica meta-vicenda, una sorta di ipercubo narrativo la cui ricostruzione dipende da connessioni, rapporti sotterranei che forse ci sono o forse no. Ma è proprio in questo “forse”, in questa sospensione semantica, la forza attrattiva del libro. Perché, come in quella famosa frase di Wittgenstein, «su quello di cui non si può dire» – cioè sugli enigmi caleidoscopici o crudeli che contornano le esistenze e sui limiti del linguaggio che vorrebbe dipanarli – «bisogna tacere». Oppure parlarne sì, ma confusamente, a bassa voce. La “deriva” è perciò quella del linguaggio che si interroga sul mondo e si avvolge su se stesso, della scrittura che accetta la sfida di mostrare per vie irregolari ciò che in altro modo non si potrebbe narrare. Scrivere, insomma, come bussare al coriaceo esoscheletro delle esistenze, farsi «isola di percezione nella notte».
Esperimento coraggioso e certamente non frequente nell’attuale panorama letterario, Deriva parla una lingua stilisticamente armonica, ariosa, di morbido ritmo e sintassi sontuosa, elastica nel suo oscillare fra zoomate ad altissima definizione e voluta opacità («sfocando un poco lo sguardo (…) per non cadere nell’inganno di un’esattezza totalizzante e bacchettona»).
Carlo Sperduti
Deriva
Piedimosca Edizioni
Perugia 2021
pp. 160, euro 15
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