DIARIO DAL BELICE Vol.2, parte I (Giuseppe Rizza)

         continua […]                                                                                                                                          

                                                                                                                                                       Paese che vai
                                                                                                                                                    stronzi che trovi
                                                                                                                                  (Colapesce-Dimartino, Cicale)

                                                                                         Vol.2
                                                                                   (da C. a G.)
                                                                                      PARTE 1

Tina mi aspetta in auto fumando col finestrino aperto, a pochi passi dal capolinea.
Alla fine abbiamo avuto solo una decina di minuti di ritardo.
In auto non c’è imbarazzo, o almeno non più di quello che è lecito aspettarsi.
Rimango con la mascherina a coprire il viso, poi la scosto per qualche secondo, infine la rimetto.
Anche una volta entrato in casa, sbaglio la tempistica.

Mangiamo in una pizzeria del centro. Non ci sono tavoli liberi, l’attesa dura qualche minuto, ma io sono, inutilmente, nervoso. Come se potesse esistere del malumore utile.
Il tavolo libero c’è, ma non all’aperto, dove giustamente chi già mangia ignora chi è in fila ad elemosinare un posto. Prima di entrare nessuno ci chiede il passaporto verde.
Il menu è inutilmente lungo.
I camerieri, la cassiera, la caposala, tutto il personale, sono costantemente sotto stress, come elettroni cui non si può prevedere la traiettoria, non hanno sosta.
Ci saziamo in poco tempo, e i nostri resti ce li portiamo dentro tre scatole da asporto, ripetendoci che ci torneranno utili per il giorno seguente, durante il viaggio, ma nessuno di noi ci crede veramente.

A casa ci mettiamo sul divano, la luce viene da una lampada ogivale appoggiata a terra. Confermo a Tina, anche se a malincuore, che per domani la tappa al Monumento per un poeta morto, di Tano Festa, è da escludere, ci vorrebbero quasi due ore per raggiungerla e già abbiamo poco tempo per visitare tutto ciò che ho in mente.
Prima di spegnere la luce decidiamo di partire alle sei di mattina, il che significa sveglia alle cinque e mezza.
È quasi l’una, e io impiego del tempo prima di riuscire a prendere sonno.

Tolgo i bordi alla mia pizza, e conserviamo i resti dentro due contenitori di plastica che portiamo con noi.
Tina, chiudendo il portone del palazzo, è quasi sorpresa dal fresco che c’è fuori.
Prima di abbandonare Catania si ferma a prendere un caffè in uno dei chioschi presenti in città.
Io rimango in auto, Catania è deserta, e impiego qualche minuto prima di tornare a ricordarmi che oggi è domenica, è agosto, e che esattamente una settimana fa era Ferragosto.
A Catania i chioschi sono parte integrante dell’arredamento urbano, e sono presenti agli angoli delle vie o all’interno delle piazze, nati come soste per dare ristoro dal caldo, sono figli degli acquaioli del Regno di Napoli, sono diventati negli anni degli aggregatori sociali, dove le persone si incontrano mentre sorseggiano l’ormai classico seltz limone e sale.
Tina mi racconta che il titolare del chiosco la pensa esattamente come lei su quanto sia piacevole Catania quando è vuota. Poi lei ha commentato che sì, Catania alle volte riesce a essere perfino bella, come durante il confinamento durante la pandemia, il traffico scomparso, nessuno per strada.
Al barista del chiosco deve essere subito parsa una bestemmia, e Tina me lo racconta divertita, Signorina, per favore, non cominciamo. Come parlare dei rischi del tabagismo a chi si è appena acceso una sigaretta.
Abbandoniamo la città e io mi sento meglio.

Le autostrade che ci allontanano da Catania sembrano facili e veloci, Tina mi indica Librino, lo definisce come un esperimento fallito, ed è sorpresa quando le dico che non ci sono mai stato.
Le domando se non sia meglio fermarci da qualche parte per fare colazione, e mi dice che ci fermeremo a un autogrill che si è costruito un’insolita fama senza un reale motivo: Sacchitello.
All’ingresso, sulla destra, ci accoglie una montagna di confezioni giganti di patatine, rigorosamente in offerta; Tina prende un caffè, io non trovo nulla che mi appetisca particolarmente, e alla fine decido per un cornetto alla confettura di albicocca, l’unico rimasto di quel gusto.
Lo addento, non molto convinto, mentre Tina attende il suo caffè. Sa di cartone, e quindi chiedo a uno dei baristi se può darmi un sacchetto di carta dove conservarlo e portarlo in viaggio, in caso di bisogno improvviso di zuccheri. Mi risponde che non sa se ne posseggono, ma si allontana per cercarne uno.
Mi passa un sacchetto bianco con su scritto Tabaccheria, e disegnato il profilo di un uomo che fuma compiaciuto un sigaro.
Tina terminato il caffè va a fumarsi una sigaretta, poi ripartiamo.
In autostrada incontriamo poche auto, il viaggio è lungo, per arrivare a Gibellina vecchia da Catania sono necessarie più di tre ore. Arriviamo alla cintura di Palermo, per poi iniziare ad addentrarci nel trapanese.

Le strade che ci conducono verso la nostra prima tappa, quella cui tengo di più, sono piuttosto difficili da spiegare. Le corsie spesso non sono uniformi, il manto stradale è dissestato, ma è solo un eufemismo, dato che per svariati chilometri, dove sostanzialmente non incontriamo nessuna auto, è d’obbligo una guida attenta, non ci si può distrarre, sbucano dal nulla avvallamenti, cedimenti, infossamenti, che se presi in velocità rischiano di danneggiare seriamente qualsiasi autovettura.
Per puro caso riusciamo a evitare giusto in tempo almeno un paio di pericoli.

Percorrendo queste strade, così come quelle del ritorno, è lampante l’assoluto stato di abbandono della valle del Belice.
È l’incarnazione dell’assenza dello Stato.
Mi chiedo da quanti decenni questa porzione di Sicilia (tutta la Sicilia?) è lasciata e abbandonata a sé stessa. Lo era prima del terremoto – la situazione trovata dai soccorritori testimonia lo stato di arretratezza economica e sociale in cui verteva il Belice – e così è stato per anni anche dopo il terremoto – le ultime baraccopoli sono state abbattute soltanto trentotto (38) anni dopo il sisma – e la situazione complessiva non sembra essere mutata.
Il Belice è davvero una porzione di Sicilia che spiega benissimo tutto il resto della regione.
Lo Stato non c’è, fornisce i servizi essenziali (e sorvoliamo sulla qualità degli stessi, sul sistema idrico siciliano, e su quello delle infrastrutture, tanto per citarne due a caso), e questo, senza fare un grande sforzo sociologico, provoca una reazione contraria, l’organizzazione di un anti-stato, dato che quello “ufficiale” viene visto solo come esattore e richiedente voti elettorali.

Con Tina ci chiediamo che fine faremmo se l’auto prendesse una buca, e la risposta crea il terrore solo a immaginarlo: potremmo benissimo restare qui, da soli, chissà per quanto tempo.
Anche solo descrivere il punto in cui siamo esattamente, sarebbe, senza i nuovi mezzi di geo localizzazione, praticamente impossibile, la campagna del Belice assomiglia a sé stessa.
Per tutto il viaggio incontriamo solo una campagna brulla, quasi sempre bruciata, nera per via degli incendi, che sembrano anche abbastanza recenti, quasi senza soluzione di continuità.
Ci stiamo avvicinando alla prima tappa, ma non abbiamo ancora trovato nessuna indicazione a riguardo, né la troveremo.

Il Grande Cretto di Burri, una delle più grandi opere di land art al mondo, non ha alcuna indicazione stradale, né tantomeno cartellonistica che ne spieghi, anche brevemente, storia, realizzazione e significato.
Qualche minuto prima di arrivare si staglia imponente dai finestrini, è impossibile non notarlo, nella sua quasi totale bianchezza sporcata dal tempo.

Immagine1

Come è impossibile non notare le pale eoliche che girano appena dietro il Cretto.
Tina confessa ridendo che vederle vorticare così, quasi lentamente, le trasmette un senso di pacatezza e tranquillità, io ovviamente la prendo per il culo.
Mi ribadisce che uno dei motivi principali, se non IL motivo, degli incendi diffusi in Sicilia degli ultimi anni (gli ultimi anni degli ultimi decenni, sarebbe il caso di dire) è quasi sicuramente l’interesse delle cosche nei confronti del giro di affari legato al fotovoltaico, alla costruzione di enormi appezzamenti di terreno “coltivati” a pannelli solari.

Non si può non sentire una fitta allo stomaco osservando, anche da lontano, il Cretto di Alberto Burri.
Più ci avviciniamo, più mi sento male, anche fisicamente.
Il Grande Cretto è una ferita, una cicatrice estesa, una coltre che copre il dolore senza dimenticarlo, un labirinto in cui perdersi e smarrirsi definitivamente, la stessa destinazione di fuga conduce a una soluzione: l’uscita dall’incantesimo è uguale all’ingresso nell’incantamento.

Il parcheggio non è un parcheggio, ma un piccolissimo spiazzo a lato della strada. Sono presenti non più di quattro, cinque autovetture, e una decina di visitatori che già si intravedono nello stomaco del Cretto.
Sto per scendere dall’auto, ma sto male. Ho fitte al ventre. Quando lo dico a Tina, inizialmente non mi crede, pensa sia uno scherzo dei miei.
Decido allora, su suo suggerimento, di allontanarmi prendendo una piccola salita imbiancata di pietre.
L’aria, che sta già iniziando pericolosamente a scaldarsi, è ubriacata dalla presenza di diverse api.
Mi seguono, ma spero sempre che siano inoffensive.
Mi piego sulle ginocchia. Cerco di respirare. Le api non si allontanano, anzi, sembrano aggiungersi delle nuove.

Da quel punto il Cretto è maestoso, e le poche presenze umane che lo attraversano assomigliano a delle formiche che stazionano su certi tronchi di alberi pitturati con una vernice al lattice.
Ritorno al parcheggio, pochi metri ci separano dall’ingresso.

Inizio a fotografare l’oggetto del mio desiderio come l’anatomopatologo fa con i cadaveri.

Burri fu invitato dall’allora sindaco di Gibellina, il senatore Corrao, il grande deus ex machina dietro la rinascita del paese, per dare il suo contributo alla ricostruzione della nuova Gibellina.
Diversi artisti, architetti, scultori, pittori avevano dato il loro contributo fattivo all’edificazione di una Gibellina che doveva essere nuova, esempio di fulgida bellezza, per combattere con l’arte il rischio della desertificazione, dell’abbandono dell’uomo.

Burri accetta l’invito, ma le sue parole di risposta, una volta arrivato a Gibellina, sono di un’esattezza acuminante. L’artista di Città di Castello è netto, non ha materiale adatto per la nuova Gibellina, il paese sorto a 19 km circa dalla vecchia Gibellina distrutta dal sisma.

Burri non sembra mostrare interesse di natura artistica nei confronti del nuovo paese in costruzione, non ne è ispirato, e sembra quasi di vederlo aggirarsi tra le nuove strade, le sculture dei suoi nuovi colleghi e non comprendere pienamente il significato dell’operazione.

L’intento del sindaco Corrao era certamente nobile, quello di ricreare dal nulla un paese che potesse essere edificato in nome del bello e della creazione artistica, ma agli occhi di Burri non è quella la vera materia pulsante, quella è rimasta nella vecchia Gibellina, nelle macerie e nei resti del paese distrutto in quella notte del gennaio 1968.

Burri accetta, decide di dare il suo contributo, ma svincolandosi, distinguendosi dal resto degli artisti; l’opera che decide di realizzare si può edificare solo sulla vecchia Gibellina: “Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa”.

Burri decide di riutilizzare le macerie, ciò che rimane di Gibellina dopo il terremoto e di costruire con il cemento un enorme cretto bianco.

L’opera raggiungerà gli 80.000 metri quadrati, e venne realizzata dal 1985 al 1989, ma solo parzialmente (Burri non riuscirà a vederla ultimata), per poi essere completata nel 2015.
Nel frattempo è stata restaurata a causa dello stato di totale abbandono in cui si ritrovava da anni, e ulteriori lavori sono previsti nel prossimo futuro.

Mi chiedo come la popolazione del luogo abbia preso la decisione – anche se nel frattempo, questo bisogna ricordarlo, ormai erano trascorsi 17 anni – di dare una nuova vita alle macerie del proprio paese.

Secondo Flo, una cara amica di Catania che incontrerò il giorno dopo, è questo il vero motivo dell’interruzione dei lavori nella costruzione del Cretto del 1989, ma non trovo riscontri a questa – plausibile – spiegazione, bensì a non meglio specificati “intoppi burocratici”, alias, soldi, fondi che non si trovano, ragioni economiche, che portano all’interruzione dell’opera di Burri.

continua […]