DIARIO DAL BELICE Vol.2, parte II (Giuseppe Rizza)

               continua […]                                                                          

                                                                                       Vol.2
                                                                                   (da C. a G.)
                                                                                      PARTE 2

Il Grande Cretto è, visto da dentro, un labirinto, visto da fuori, un sudario.
Scopro che per gli Ebrei (e non solo) il sudario serviva a coprire il viso della salma.
La salma qui c’è, è un corpo imponente, quello di un intero paese sepolto da un sisma.
A distanza di anni, non si conosce ancora il numero esatto delle vittime, esistono varie versioni: chi sostiene 231, chi 370, mentre 90.000 furono gli sfollati, 14 i centri coinvolti, e 6.4 la magnitudo del sisma.

Appena entro, altre api si aggirano, ma non sembrano così minacciose.
È impressionante fin da subito la pendenza con cui il Cretto è stato costruito, e inizio ad avere i primi dubbi sul fatto che riuscirò a vederlo per intero, è quasi impossibile farlo, anche per la sua vastità.
Non sembra, grazie alle opere di restauro, essersi mantenuto male.
Il suo biancore latteo è sporcato solo da qualche sporadico ciuffo di erba o di arbusti che fuoriescono dal cemento.
Dopo pochi minuti, una piccola pianta, una minima macchia di colore, sbucherà sulla parte superiore di una porzione di cemento. La fotografo. Mi permetto quasi di sorridere, anche se è difficile farlo dentro questo monumento al dolore, perché mi sembra una metafora, scomposta come molte metafore, di quelle di derivazione new age sulla resilienza, in cui la vita alla fine riesce sempre a trionfare sulla nemica morte.

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Quando passo fra i vicoli, perché di autentiche strade si tratta, in cui Burri ha cercato di ricostruire il percorso viario del paese, tocco la materia di cui è fatto, il cemento e l’assemblaggio dei resti, e sembra quasi toccare un cimitero, delle lapidi.
Alzo costantemente lo sguardo, la testa, il caldo delle dieci di mattina di un agosto qualunque in Sicilia, di questo agosto 2021, si fa sempre più forte.
Come dentro un labirinto, all’interno del Cretto si devono fare delle scelte, quali strade prendere, quali direzioni affrontare.

È difficile attraversare il Cretto da sinistra a destra, quasi impossibile, almeno sotto questo sole siciliano, da giù a su e da destra a sinistra, quindi, scelgo di salire, e quasi mi pento di prendere una decisione simile.
La pendenza che fin da subito mi aveva colpito è difficile da scalare, e di tanto in tanto mi aggrappo con le dita sulla materia come su uno scorrimano.
In un angolo dei resti di una bottiglia di vetro, le uniche, per fortuna poche, presenze umane ravvisabili nei dintorni.

Tina mi dice che preferisce aggirarsi nel Cretto, ma senza continuare a salire come invece le mie gambe vorrebbero fare. Mi viene da pensare che ha intuito, forse, quanto sia importante per me questo luogo, e sembra quasi se ne voglia allontanare con discrezione, per lasciarmi da solo in questa mia personale sfida.
È come se fossi abitato da uno strano furore, la resistenza che secondo logica mi direbbe di non continuare a salire si fa presto blanda, e questa forza a me sconosciuta fino a quel momento decide al posto mio di continuare la scalata.
Mi sento come dentro una chiesa. Avere il rispetto del luogo, della sacralità del luogo, anche se non si è credenti. E come in una chiesa, il silenzio è uno dei modi possibili con cui entrare in relazione con l’opera di Burri.
La commozione non sale, è un circolo che assomiglia a un gorgo, sosta e di volta in volta gira intorno a sé stessa, quasi per dimostrarti che è ancora lì, che esiste.
Alzo la testa sempre più spesso, ho dei dubbi sulla mia riuscita finale, e mentre lo penso continuo a salire.

Qui nessuna fretta è percorribile, nessuna velocità.
Mentre sto col naso all’insù mi dico che lo devo a me stesso, come una preghiera laica, devo la riuscita dell’attraversamento del Grande Cretto di Burri al mio recente passato – un’operazione delicata – come se l’attraversamento del dolore dell’opera di Burri, l’attraversamento del dolore della gente di Gibellina, sia anche il mio. Il ventre del Grande Cretto di Burri diviene per me la rappresentazione mentale di com’era il mio stomaco prima di essere operato.
Mi intendo di cicatrici.

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Arrivo alla fine, all’ultimo tassello, il più alto, e giro verso sinistra, dove vedo diverse persone, alcune sopra il Cretto, all’in piedi, ad ammirare il panorama visibile da lì, alcuni addirittura a camminarci sopra, così come immancabili sono gli autoscatti con lo smartphone.

Sempre più frequentemente penso che questi veri e propri monumenti, soprattutto opere di arte contemporanea, ormai sono diventati delle autentiche macchine da selfie, dove quasi ogni persona debba dimostrare la sua presenza, lì e ora.

Io non credevo di potercela fare, non credevo di poter essere in grado di arrivare all’uscita del Cretto, che tale non è, perché per uscire bisogna passare nuovamente attraverso l’entrata.
Avevo solo fatto l’andata. Se riesci a fare l’andata, il ritorno è facile. O almeno fattibile. Conosci già cosa fare.
Mi sono aggirato sul limite, e una volta arrivato al confine alto, lo spettacolo era tutto il resto, il resto che avevo appena compiuto, che mi ero appena lasciato, il resto che era già diventato il mio passato.
Il resto erano le mie cinque cicatrici sul ventre.
Mi sono avvicinato al gruppo di persone che era riuscito a salire sopra il Cretto, ho visto che ai piedi di quel tratto qualcuno aveva messo due pietre, così da potersi sollevare e scavalcare il cemento.
Mi sono avvicinato, diffidente.
Un uomo che era riuscito a salire ha iniziato a guardare verso di me.
Ho fissato le pietre, ho provato a salire. Ho messo prima un piede, poi un altro. Le due pietre non erano stabili. Le mie mani arrivavano a toccare il Cretto, ma nulla di più. Per il mio corpo era impensabile riuscire a sollevarsi e salire lì sopra.
L’uomo ha continuato a guardarmi, e così un’altra coppia, anche se più svogliatamente, a me e al mio corpo non era consentito ciò che era riuscito ai loro.
Ho desistito subito.
Ma ero arrivato alla fine del Cretto, questo era vero. E me lo dovevo, lo dovevo al mio corpo, alle mie cicatrici.

Generalmente si crede che una volta fatta la salita, la discesa sarà piacevole, se non più agevole della salita.
Al Cretto, per me non è stato così.
Essendo molto in pendenza tutta la costruzione, la discesa è ripida.
Ho dovuto trattenermi in diversi tratti per non cadere, alzando le braccia fino alla parte superiore del cemento, e tenermi per non scivolare.
Ho pensato quanto sarebbe stato umiliante cadere proprio in discesa, dopo essere riuscito a salire.
E come sarebbero arrivati i soccorsi? Le persone che erano lì, mi avrebbero preso per le braccia e per le gambe se mi fossi rotto qualche osso?
Mi sono girato all’in dietro, per vedere se gli altri mi stavano osservando mentre per scendere mi aggrappavo per evitare di cadere.
Ma venivo, per fortuna, ignorato.

Chiamo Tina al telefono. Non risponde. Mentre squilla, ritorno davanti alle schegge di vetro che avevo incontrato all’andata, e sorrido.
Nel tratto in cui sono arrivato non c’è nessuno. Allora urlo il nome di Tina. Non mi risponde nessuno.
Continuo a scendere. Il caldo è sempre più potente, i polpacci più deboli, temo dei crampi.
Tina mi richiama, mi sta aspettando all’uscita. Mi manca poco. Decido di andare sulla parte esterna, dove nella parte finale incontro ancora un altro, o lo stesso di prima, sciame d’api, quasi per darmi un ultimo saluto.
È difficile rivolgere lo sguardo, uno sguardo ancora, al Grande Cretto, quando ne sei uscito, quando sei stato espulso dal suo labirinto. 

continua […]