DIARIO DAL BELICE Vol.4 (Giuseppe Rizza)

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                                                                                                                Sì, ti dedicherò un pensiero al giorno
                                                                                                                  (Colapesce-Dimartino, Rosa e Olindo)

                                                                                        VOL.4
                                                                                   (da G. a P.)

Tina ha impostato sul navigatore l’arrivo a Poggioreale, ma quando siamo già in viaggio da almeno una decina di minuti, mi viene un dubbio, e le chiedo se come destinazione ha selezionato i ruderi di Poggioreale, o se la nuova Poggioreale, la new town costruita lì vicino.
La seconda. Mi chiede di verificarne la distanza, perché in tal caso, si farà a meno di questa tappa, Non voglio rientrare troppo tardi a Catania, mi dice.
Le rovine sono a poco più di quindici minuti rispetto alla nostra posizione.
Anche se inizia, giustamente, ad essere stanca, Tina decide che si può fare.
Prima di arrivare ci accorgiamo di una differenza rispetto a Gibellina: qui il nuovo e il vecchio paese distano pochi chilometri uno dall’altro, pochissimi minuti.
Una volta arrivati ci ritroviamo davanti a un cancello che ci sbarra la strada.
Scendiamo, e il cancello è chiuso da una catena che si conclude con un catenaccio.
Ci avviciniamo alle sbarre, e vediamo che oltre il cancello ci sono diverse persone. Ma anche un cartello con un divieto di ingresso, motivato dal pericolo di crolli.

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Sul lato sinistro qualcuno ha posto delle pietre per scavalcare il muro posto accanto al cancello.
Mi avvicino, e per me non sarebbe, comunque, facile.
Impiego poco tempo per decidere che il tutto non è praticabile, seppure le persone davanti a noi salgano e scendono senza particolari problemi.
Non abbiamo molta scelta, meglio andare verso l’ultima delle nostre tappe.
Mi accorgo di una piccola e laterale strada sterrata, poco prima del cancello, sulla destra.
Decido di imboccarla, provare a vedere dove possa portare.
Dopo pochi metri si apre un bivio, mi dirigo verso sinistra. Sono dentro la vecchia Poggioreale, questa stradina è già oltre il cancello. Torno indietro e avviso Tina, che mi raggiunge. Mentre rifacciamo il percorso, e facendo un commento su tutti gli arbusti spontanei che spuntano ovunque – la natura che si riappropria di tutto, sosterrebbe qualcuno – Tina dice: “Qui è più facile morire per una zecca che per i crolli”.
Appena dice così, crea il terrore a una coppia che ci aveva chiesto informazioni qualche minuto prima, e che ha sentito pronunciare la parola zecca: “Ci sono zecche?”, chiedono terrorizzati. Tina smentisce.

Iniziamo a camminare per la via centrale del paese, con le costruzioni intorno semi distrutte dal terremoto.

Subito a sinistra c’è un palazzo che sul balcone ha una pianta grassa. Dubito che sia lì dal ’68.
Lo Stato italiano diede la possibilità di ottenere il passaporto in poco tempo per qualsiasi parte del mondo, subito dopo il sisma: un’abdicazione, della serie “andate pure, anzi forse è meglio per tutti, per noi e per voi”. Stiamo parlando fra l’altro di una zona della Sicilia già allora particolarmente colpita dall’emigrazione.
Fra i corpi recuperati, quello ormai deceduto di una madre che teneva in braccio la figlia. Quest’ultima subì un severo intervento alla testa, e grazie a una colletta dei medici dell’ospedale di Sciacca (nosocomio che aveva raccolto la maggior parte dei feriti) fu permesso al padre di far ritorno dalla Svizzera – dove era emigrato – per recuperare la figlia.
Diverse abitazioni non sono particolarmente lesionate, altre hanno subito danni strutturali.
Ma uno dei pensieri che ritornano puntualmente mentre si è a Poggioreale è proprio questo: perché non si è ricostruito?

Una parte – sostanziale – degli edifici non sembra avere subito danni strutturali.
Tentando di buttare uno sguardo all’interno di alcuni, è visibile la cura e la qualità di affreschi in diverse abitazioni, fino a un imponente palazzo di una ricca famiglia e i resti del teatro.
Ma è un altro l’edificio che desta la mia attenzione: la scuola.
Entriamo, e sulla sinistra c’è un corridoio con alcuni graffiti e dai muri scrostati, che porta a un’aula: qui il pavimento è ricoperto di calcinacci e in un angolo di ferri arrugginiti e ritorti che creano una nuova unica e intricata forma: un tempo erano dei banchi scolastici.
Tornando indietro, appena dopo l’entrata principale c’è uno schedario in alluminio, arrugginito e mal messo, e una piccola stanza con una tenda che sembra di nylon, smossa dal vento: dentro si intravede un materasso in pessime condizioni, chissà da chi sarà stato usato in passato, e qual era l’indigenza delle persone che hanno dormito dentro questi edifici per decidere di rifugiarsi qui dentro.

Le opzioni adesso sono due: o salire delle scale che portano al piano superiore, ma che sembrano messe piuttosto male, o proseguire lungo un corridoio di qualche metro.
Decido per la seconda, forse, chissà, la meno pericolosa.
Sulla sinistra due stanze: la prima è piena di resti, di pietre bianche, sezioni di colonne, blocchi frantumati di marmo; l’altra, immediatamente dopo, ha la struttura in legno di una finestra, deposta sul pavimento, un banco sotto una delle due finestre su cui qualcuno ha lasciato un pacchetto di fazzolettini semivuoto, e in fondo alla stanza, in modo del tutto inspiegabile, una poltrona bianca in stile antico. Chi l’ha portata lì, dato che non sembra un pezzo di arredamento adatto a un edificio scolastico?
Sulla parete un grande graffito con su scritto DIE e un’altra lettera meno comprensibile, forse una B.

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Continuando lungo il corridoio si arriva ai bagni (“Prof, posso andare ai servizi?”), divelti e ridotti piuttosto male. Chissà chi saranno stati i primi a trascorrere del tempo, sicuramente annoiati, qui, dentro la scuola, dopo il terremoto. La banda di ragazzi che per prima avrà detto, Ci vediamo domani alla scuola diroccata.

Chi avrà rotto le porte in legno, fatto i graffiti, divelto altre strutture, rotto tutti i gessi delle lavagne.
Uscendo dalla scuola e proseguendo per la via si arriva a quella che era la piazza principale del paese. È molto grande, piena di erbacce, ma conserva diversi edifici in discreto stato. Quelle che erano botteghe, sedi di partito, bar, ora sono solo spettri, sorvegliati da una scultura in pietra, di recente costruzione. In mezzo a questi edifici un’enorme scalinata che porta al resto del paese. Decidiamo di terminare qui la visita ai resti di Poggioreale, per non arrivare troppo tardi alla prossima tappa.

Torniamo all’auto percorrendo lo stesso percorso che avevamo fatto all’inizio, io mi sforzo di non pensare al pericolo zecche (mi prude un polpaccio), oltrepassiamo il cancello e altre nuove, identiche, e quasi impraticabili strade, ci porteranno fra poco più di due ore nell’ultima tappa di questo viaggio.
Una nuova provincia, non più Belice.

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