DIARIO DAL BELICE Vol.5 (Giuseppe Rizza)

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                                                                                                                              Augh!
                                                                                                                              Siamo una tribù
                                                                                                                             (Colapesce-Dimartino, I mortali)

                                                                              VOL.5
                                                                        (da P. a S.S.Q.)

Siamo in un’altra provincia. Ad Agrigento, a Santo Stefano Quisquina, fra i monti Sicani.
Abbiamo prenotato da giorni una visita per due, alle cinque del pomeriggio, ma siamo lì in anticipo.
Alla cassa una ragazza ci dà anche un bicchiere di plastica riutilizzabile, bianco, con su scritto in arancione TEATRO ANDROMEDA e un disegno che lo ricorda.

Dopo qualche centinaio di metri iniziano una serie di sculture, un mascherone enorme con la bocca spalancata, Icaro stramazzato a terra e un’altra maschera di terracotta protagonista del solstizio d’estate.

In quel giorno infatti il sole la attraversa, così come nel solstizio d’inverno il sole sarà invece celato da un cerchio di latta che si staglia sopra la porta di uscita del teatro.

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Eccolo il silenzio, di nuovo. Tutto intorno lo esige. Come nel Grande Cretto di Burri, qui l’ambiente circostante sembra invocarlo, evocarlo.

Una musica si diffonde da delle casse, uno strumentale che quasi disturba, pur non essendo a un volume elevato. All’entrata del teatro, si distingue un’ombra, che ha con sé uno strumento a corde.
Scopriremo più tardi che si tratterà di uno dei figli di Lorenzo Reina.

Ma chi è costui? È un pastore che fin dal 1970 conducendo le pecore al pascolo, si accorse che quest’ultime all’ora del tramonto ruminavano con una strana quiete addosso. Decide quindi di edificare, poco alla volta, pietre su pietre, quello che diverrà un teatro, un palcoscenico posto davanti a un panorama con cui non è facile fare i conti.

Col tempo i posti a sedere costruiti dal pastore diventano 108, blocchi di pietra che simboleggiano il numero e la disposizione esatta delle stelle che compongono la costellazione di Andromeda.

È fra circa quattro miliardi e mezzo di anni, che la galassia M31 della costellazione di Andromeda si scontrerà con la nostra galassia.

L’atmosfera che si respira entrando nel teatro – il quale può essere chiamato così solo per convenzione, perché è molto altro – apre nel visitatore dei cassetti che credeva di non possedere, o che quantomeno erano impolverati.
Sedendomi su uno dei blocchi di pietra bianca un che di mistico m’investe. Uso questo aggettivo, ma è anch’esso solo una convenzione, un termine da adoperare nell’incapacità di precisare al meglio uno stato d’animo e una quiete insolita, forse mai sentita prima.
È difficile essere indifferenti a ciò che si ha intorno, è un intorno che ti investe, anche se con una certa grazia mascherata.
Una grazia che al limite può far nascere diffidenza, ma che non può comunque far rimanere insensibili.

La pace però dura poco, dato che ben presto sciamano diverse persone intorno al teatro, tutte impegnate a ritrarsi, IO C’ERO- IO CI SONO, in mezzo al nulla ricreato dal teatro Andromeda. Ma anch’io non mi sottraggo all’operazione.
Vorrei rimanere più tempo possibile, godermi magari anche il tramonto, ma non possiamo fare tardi, dato che altre ore di autostrade ci aspettano. 

Il teatro Andromeda è forse il luogo che – insieme al corpo del Grande Cretto di Burri – mi ha sorpreso di più, e più mi ha fornito bellezza.
Due luoghi indubbiamente spirituali, se per spirito e spiritualità intendiamo ciò che ci fa mettere nudi davanti a noi stessi, due ambienti diversissimi, perfettamente integrati con l’ambiente, tanto da apparire naturali pur essendo smaccatamente opere dell’uomo.
Ma sono, queste due, opere dell’ingegno e della passione umana, che ci fanno riflettere sulla nostra natura, fornendoci anche un mucchio di speranza nei confronti della specie a cui apparteniamo, come se ancora, in fondo, nulla fosse pienamente perduto.

A pochi passi dal teatro, qualche metro più in là, una signora è seduta su una pietra, l’osservo per qualche minuto, prima contemplare il panorama, poi fare i conti con i propri pensieri, forse con le proprie preoccupazioni.

Vorrei rimanere dentro, dentro l’imbuto di Andromeda, non staccarmi dal suo palcoscenico, limitarmi a osservare trascorrere le ore, il tempo, le giornate.

Ma niente di tutto questo è possibile.
È ora di fare ritorno. La realtà incombe.

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