Edmond Jabès. La sovversione non sospetta della scrittura

a cura di Davide Zizza

 

Edmond Jabès. La sovversione non sospetta della scrittura
[La poesia-riflessione de Il libro della sovversione non sospetta, con la curatela di A. Prete, Edizioni SE, 2005]

“Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa”
Ennio Flaiano

La poesia fa trasparire dal suo fondo un respiro, una riflessione riversata nello spazio della parola. Insedia la sua tenda nel territorio bianco, si riveste di un significato. La sua finalità è realizzare l’inatteso, disorientare le coordinate del lettore mettendole in discussione, demolire per ricostruire aggiungendo nuovi luoghi di percezione.
Il libro della sovversione non sospetta, primo tomo dell’opera Le livre des limites, indaga proprio il movimento e il limite della scrittura e la forma che essa occupa sulla pagina. L’orientamento del testo è di confine, in bilico tra la forma-poesia e la forma-prosa. Ancor più, la sua non è riflessione sulla poesia, al contrario è poesia di riflessione, un dirigersi in quella zona della conoscenza dove, per dirla con Antonio Prete, “pensare è poetare”. Il pensiero per l’autore è “lampo che squarcia il vuoto” perché “il minimo chiarore è sospetto di universo”.
L’opera di Edmond Jabès – autore tutto da scoprire in territorio italiano considerando le poche pubblicazioni – è un esempio di originalità. Nel segno della sovversione ritroviamo la sua peculiarità letteraria. La dinamica della scrittura è un movimento simile alla sabbia, cambia aspetto e configurazione, non ha un volto unico e assoluto. “Scrivere è affrontare un volto sconosciuto”, con questa affermazione posta all’inizio del libro Jabès avverte il lettore. Ogni cosa la parola sovverte del suo senso originario. In merito ad un’altra opera dello stesso poeta francese, Il libro delle interrogazioni, Paul Auster ha scritto nel saggio L’arte della fame: “Né romanzo, né poesia, né saggio, né testo teatrale, Il libro delle interrogazioni è una combinazione di tutte queste forme, un mosaico di frammenti, aforismi, dialoghi, canti e commenti che si muovono senza posa attorno alla questione centrale del libro: come dire l’indicibile. L’interrogativo riguarda l’Olocausto degli ebrei, ma anche la stessa letteratura.” Partendo dalla definizione, riusciamo ad individuare una rivoluzione sia estetica sia etica sul piano del genere, ovverosia una scrittura dalle varie direzioni che procede per illuminazioni, aforismi, segmenti poetici e prosa frammentaria. La vera forma della scrittura è non aver forma, è muoversi sulla pagina cercando i punti dove stabilire la tenda, e dirigere la scrittura nelle insenature del pensiero significa reiterare il senso dell’interrogazione (la question), uno dei temi e dei procedimenti cari a Jabès, proveniente dalla tradizione ermeneutica ebraica per cui ad ogni domanda segue un’altra domanda, per cui il valore di una eventuale risposta viene subito rimessa in dubbio.
Pertanto “l’opera non è mai compiuta”, lascia aperte altre interrogazioni, luoghi o spiragli d’infinito; la parola – il sole nero che illumina – prenderà persistentemente posto sul bianco perché “Lì dobbiamo installarci.” Per Jabès scrivere diventa “movimento di morte” in quanto uccide il silenzio della pagina bianca; scrivere sovverte perché “un passo nella neve è sufficiente a scuotere la montagna”.
Il passo nella neve appena citato può rispecchiare due condizioni importanti presso il nostro poeta. Da una parte comunica la condizione dell’esilio (avvenuto nel 1957), sofferta e poi rimeditata durante gli anni, ci ricorda ancora Prete, quale figura di condizione universale poiché lascia intravedere una separazione ancor più profonda: l’esilio non riguarda solo la terra, bensì uno spaesamento interiore che pone una distanza con l’Altro, una separazione tale da renderci stranieri persino a noi stessi. Di fatti “Noi siamo forse la somiglianza con noi stessi, che è stata mille volte sventata?” Dall’altra il linguaggio poetico ne incarna il senso, rivalutando il sintomo di una letteratura nomade dai molteplici orientamenti.
La risoluzione dello spaesamento vorrebbe colmare un’assenza nel percorso della penna: “Scrivi. E ignori tutti i conflitti che la penna solleva al suo passaggio: il libro è la posta in gioco di quei conflitti”; assenza che si snoda attraverso sentieri per trovare quindi un Libro che moltiplica la sua identità considerando “Ogni libro ventisei lettere. Ogni lettera migliaia di libri” o, come affermò Jacques Derrida ne L’écriture et la différence, « Il n’y a qu’un Livre et c’est le même Livre qui se distribue dans tous les livres », non esiste che un Libro, ed è lo stesso libro contenuto in tutti i libri. La ricerca del libro perduto è la ricerca di una dimora. Non sarà possibile viverne al di fuori, nel restarvi dentro resterà tuttavia inarrivabile essendo “parole e dimora così saldamente legati fra loro, ma anche, nel contempo – ecco il paradosso – così distanti.” Il libro è il territorio di identità, la terra promessa sfiorata in una prossimità inafferrabile e indefinita.
Jabès si slancia verso il tentativo di dire l’ineffabile. La sua sovversione ridefinisce la profondità dell’interrogazione e dell’ospitalità, della necessità dell’altro – riflesso di noi stessi – ma chiede in pegno di avventurarsi nella lettura come quando si attraversa un bosco e ci si orienta verso la direzione sbagliata, ma necessaria. Necessaria per perdersi, al fine di ritrovarsi.

 

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