Sostiene José Saramago. O dell’imprescindibile denuncia della poesia

a cura di Davide Zizza

Sostiene José Saramago. O dell’imprescindibile denuncia della poesia
(riflessioni dalla raccolta delle Poesie, Einaudi, 2002)


 

“Meu coração não se cansa de ter esperança”
Caetano Veloso

Prendo il libro di poesie di Saramago, vado alla quarta di copertina, leggo la biografia e trovo “José Saramago (Azinhaga, 1922)”. Non c’è la data di morte. Mi restituisce una piacevole impressione prendere un libro e leggere solo la data di nascita, sotto alcuni aspetti riporta indietro nel tempo, alla vita dell’autore. L’edizione si è fermata alla sua epoca prima che venisse a mancare; l’autore pertanto è da ritenersi vivo.
Autore dai versi allegorici e duri simili alla pietra, i suoi testi rappresentano una rivolta verso la ferocia “dell’uomo verso l’uomo”. Voce che chiama dal silenzio. Ascoltare le poesie samarghiane poiché la lettura è ascolto mi rievocano certe melodie del fado, una profonda malinconia fatta di sentimenti crepuscolari e tenaci. Tuttavia se dovessi ritrovare una consonanza con un autore o un genere musicale portoghese senza dubbio li accosterei a Caetano Veloso per quelle rarefazioni estive che sfumano in un colore popolare e intimo.
Saramago è un poeta triste, ma perseverante, non si abbandona al malessere e in cerca di sossego medita sul suo tempo. Lucido, disincantato, a tratti crudo (“Al popolo la musica che merita” dice nel Salmo 136), la sua è speranza della scrittura finalizzata al riscatto, non grido disperato, bensì voce critica sulla superficialità dei tempi moderni e sulla perdita di valori.
Il suo stile si configura nell’allegoria e nella denuncia, non a caso intitolò la sua prima raccolta Le poesie possibili, fornendo così un indizio di una dittatura, quella di Salazar, che imbavagliava scrittori e poeti al cospetto di un ignominioso fascismo per cui “Qui, sulla Terra, la fame perdura”. E qui conviene ricordare un dato comune, in quanto sia Veloso che Saramago subirono la persecuzione dell’epoca, e persino il fado incontrò la censura dittatoriale.
Il suo percorso creativo è teso a recuperare un significato mitico e originario: comunicare la bellezza e la saggia semplicità dei giorni (“L’uomo più saggio che io abbia conosciuto non sapeva né leggere né scrivere. […] Talvolta, nelle calde notti d’estate, dopo cena, mio nonno mi diceva: “José, stanotte dormiamo tutti e due sotto il fico” […]. In piena pace notturna, tra gli alti rami dell’albero, mi appariva una stella, e poi, lentamente, si nascondeva dietro una foglia, e, guardando da un’altra parte, come un fiume che scorre in silenzio nel cielo concavo, sorgeva il chiarore opalescente della Via Lattea. E mentre il sonno tardava ad arrivare, la notte si popolava delle storie e dei casi che mio nonno raccontava: leggende, apparizioni, spaventi, episodi singolari, morti antiche, zuffe di bastoni e pietre, parole di antenati, un instancabile brusio di memorie che mi teneva sveglio e al contempo mi cullava”).
Il lavoro di scavo parte da un esercizio essenziale che elimina i barocchismi per trovarvi la nudità, la durezza e il profumo salino della pietra del mare.
In una poesia (Fantascienza II) sembra persino esservi una rievocazione montaliana per cui “i cocci aguzzi di bottiglia/che ricoprono i muri,/quando ci corriamo sopra,/ci riducono a brandelli.” Ma la vita non è vuota di senso, “dev’esserci un colore da scoprire […] una chiave per aprire […] un’isola più a sud”; anche laddove troviamo “poesia secca” o poesia “detta a bocca chiusa”, il poeta “non può morire senza dire tutto” e pertanto le parole si adoperano per divenire “ponti che abbracciano distanze” e possano far ritrovare la direzione di una ritualità quotidiana e piena (“Sorseggia il vino, mangia il pane, […] porta rose alla fronte, copri gli occhi,/hai imparato il rituale e sai già tutto”).
Nel suo tentativo di scendere “fino al midollo”, il suo scopo è “centrare con cura la semente” come quando si coltiva un terreno e bisogna saper piantare bene il seme che darà frutto.

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