Enzo Jannacci a dieci anni dalla scomparsa 1

a cura di Guido Michelone

Uno strano recital

A dieci anni dalla scomparsa vorrei raccontarvi il ‘mio Jannacci’.

La prima volta che incontro Enzo è durante l’inverno 1981 al Teatro Civico di Vercelli, dove tiene uno strano recital: siede al piano (elettrico) ed è in compagnia di tre jazzisti di valore (ora non ricordo i nomi, ma di certo quelli che collaborano ai suoi dischi in quegli anni di svolta musicale verso un sound più funkeggiante e meno cabarettistico) a offrire un concerto interamente strumentale con tanti standard sui cui improvvisano in uno stile mainstream. Pare che addirittura prima degli esordi rock and roll i Due Corsari (l’altro è ovviamente Giorgio Gaber) e molto prima di diventare lo stralunato cantautore della Milano ‘scapigliata’, Jannacci suoni il jazz, un po’ per divertimento e un po’ perché quella musica rappresenta per i giovani nati prima della guerra un inno di libertà. E comunque sul sound jazzistico, dal dixieland alla fusion, vengono strutturati molti suoi brani, che, successivamente, nell’arrangiamento e nell’esecuzione si fregiano della partecipazione dei maggiori jazzmen – uno su tutti, Renato Sellani – dagli anni Sessanta fino al Duemila, quando la direzione artistica passa al figlio Paolo Jannacci, il quale a sua volta vanta rigorosi studi classici come pure una passione genuina per i suoni afroamericani. Al di là, però di questi dati oggettivi, c’è un’altra ragione che mi porta a inserire un paio di brevi surreali colloqui che ho con Enzo a quasi un quarto di secolo l’uno dall’altro: il fatto è che Jannacci – come la banda Osiris, i fratelli Conte e tanti dei non-musicisti intervistati in questo libro posseggono ciò che gli spagnoli chiamano ‘duende’, qualcosa definibile come ‘il duende del jazz’ o il ‘jazz feeling’ o ancora lo ‘spirito jazz’. Torno a ribadire che molti, più o meno consciamente, conducono una ‘vita jazz’ (anzi, proprio la posseggono) molto più di noti rinomati solisti. Basta sentirlo parlare – dai materiali televisivi o anche leggendo le trascrizioni di interviste – per capire quanto sia importante l’inclusione di Jannacci.

Alla fine del set, in camerino, assieme a un po’ di gente passata di lì per l’autografo, dunque gli chiedo perché dopo tanti anni in cui si dedica a tempo pieno alla professione di medico di base (come pure di chirurgo) presenta un nuovo spettacolo: “Perché bisognava farlo, era giusto. Dopo tante prove abbiamo deciso che adesso è il momento di andare. Non c’è nessuno in giro, non c’è nessuno che racconti delle cose. Lucio è fermo, De Gregori non ha voglia, Guccini è così, io ho trovato delle cose interessanti e la quadratura giusta; e bisogna trovare anche l’ambiente giusto. Ieri abbiamo lavorato in un tendone che conteneva cinquemila persone: è stato esaltante! Venivano ragazzi, la cui età media era vent’anni! È una scommessa: questi qui non sanno neanche Vengo anch’io? No, tu no!, poi li beccavi! Questo è un punto chiave. Perché i romani, i fiorentini, i ravennati erano lì, pronti a tirarti le lattine, giustamente, se non suoni bene”. Il mio pensiero alle contestazioni degli autonomi che alcuni suoi colleghi dai cantautori ai jazzisti bianchi subiscono dal vivo, mentre lui è preoccupato in termini di indifferenza generale: “Io sono uno che s’incazza subito, al volo, è vero: quelli che lo dicono hanno ragione! L’altra sera ero a Bolzano in discoteca, un posto simile a un teatro, come dicono alcuni adesso. Non è vero! Non per sembrare snob, ma i ragazzi che vanno in discoteca se ne sbattono i coglioni, sentono il tum-tum-tùm e poi può arrivare, che so, Gilbert Bécaud, che loro se ne sbattono!”.

continua […]