Falkland Road

Trascorrevo spesso la notte nel postribolo di Kanta, una signora originaria di Bangalore, nel sud dell’India. Verso l’una di notte le luci cominciavano a spegnersi, gli ultimi clienti scendevano la ripida rampa di scale dal legno minacciosamente cigolante. Rimanevano soltanto gli all night customers, che per trenta rupie s’intrattenevano con una ragazza fino all’alba. Dal vestibolo, dove a volte una madre, seduta sul pavimento, allattava al seno il figlio, o un’altra ragazza preparava un tè su un fornelletto a gas, passavo a una stanza di due metri per tre, occupata quasi per intero da un letto e delimitata da due tende dai colori e dai disegni vistosi. La sola piccola luce di una lampada a petrolio, in un angolo, mi guidava nell’osservazione della figura della mia donna. Sedevamo sul letto, e la prima cosa che facevo era chiederle di struccarsi. Le prostitute sembravano possedute dall’ossessione di schiarirsi la pelle -i clienti indiani preferivano la carnagione pallida- e ogni sera, prima d’iniziare il lavoro, si sottoponevano a un’accurata sessione di trucco. Accanto alla lampada c’era una bacinella colma d’acqua, una spugna vi galleggiava. L’acqua intorbidita dal fondotinta dava avvio, sotto il debole fuoco del petrolio, a una cerimonia d’oblio dell’occhio. Il corpo entrava nella stanza come in uno scenario in cui aprire alla distinzione visuale la curvatura delle spalle denudate, il tremore dei seni, il ventre di bronzo tagliato superiormente dalla cassa gracile del torace. Le articolazioni della figura venivano riunite nel piano dello sguardo e del mercato: la fragranza dell’ambra e la freschezza del suo prezzo deformavano, da subito, la giustapposizione visiva nella promessa d’una violenza alla luce: prezzo e natura, prezzo naturante per cui, sopra la lampada rossa, in una rapida rassegna venivano onorati gli occhi del pagante affinché la loro cecità potesse durare, nella pletora sanguigna, fino all’alba che il brusío in crescendo nel vestibolo avrebbe annunciato.
La prima cosa era eiaculare subito, due o tre volte nella prima ora, per poi poter smarrire, nell’opacità delle cinque ore restanti, il limite che sul gesto componeva il corpo: fermezza umbratile e riflesso, la materia amata o la materia riverberata del desiderio. Eiaculare subito, tre o quattro volte in una o due ore, per poi amare senza senso genitale, fino alle prime luci dell’alba irradiate in suono dal vestibolo, l’umidità e l’odore dall’inguine alla testa. Trascinare con le dita il tepore dello sperma dalla duttilità dell’ano lungo l’intero ductus della spina dorsale -che si arcua sotto i polpastrelli per innestarsi nell’occipite protetto dalle pieghe di pelle della nuca, levigata e tiepida sotto i capelli come sotto un’erba riarsa. Far scivolare le nocche rugose sui capezzoli fino alla piastra polita delle unghie e voltare le mani e stringerle intorno alla carne modellabile. Ferirsi la bocca sulle lame dei denti, sul taglio che gronda la freschezza della saliva come un sangue previo alla violenza. Annusare sul ventre la heeng delle gocce d’orina, la spezia polverizzata sulle cosce dalla notte interminabile, senza sonno, mentre dalle altre stanze, separate l’una dall’altra da una semplice tenda, i sussurri e i lamenti delle altre coppie costruivano sul mio silenzio una pellicola sonora, una leggera vertigine del desiderio. Questo basso continuo che avvolgeva la notte del postribolo non era che eccezionalmente spaccato da un acuto, da un grido. Subito ritornava a macinare il suo cammino circolare di dannazione, la sua risacca, la sua rete di protezione melopoietica.
L’oblio dell’occhio è la cerimonia dell’asprezza del desiderio, il suo stato ateo. Il corpo non è profondo, o è troppo profondo. L’organo prezioso, la forza segreta, è assente. L’ordine di piacere, che la divinità della figura fa confluire nel riconoscimento del volto, è straziato dal fortore vaginale protratto sulla mano che percorre lo sterno e avvinghia la gola e soppesa, ornato all’ornato, la pulsazione della carotide –un dito si allunga a occupare la minima cavità sul mento. Se a volte il gesto è compulsivo, lo è nell’assoluta lentezza, nell’immobilità del desiderio scollegato dal piacere del volto, condannato o premiato a consumare la mera preparazione della propria origine su un corpo ininterrotto e quindi intangibile. La prostituta, nel postribolo buio di Kanta, era un dio decentrato, impotente e ripetuto.
L’alba a petrolio del vestibolo, livida e secca, s’inumidiva della luce del giorno in fondo alla stanza comune -dove le prostitute cucinavano, cucivano, fumavano e chiacchieravano tra di loro, chi aveva un figlio lo accudiva. Un’ampia finestra apriva il vano sulla strada e sugli edifici di fronte, dai cui davanzali nere figure femminili tagliavano con lente movenze il bianco della visione. Vari uomini attraversavano la strada reggendo sulla schiena grossi otri di pelle di capra, pieni d’acqua, e li portavano all’interno delle case. Uno di loro inciampò nel corpo di una prostituta che dormiva sul marciapiede, scatenando nella donna una sequenza automatica d’insulti senza convinzione. Mi piaceva sfruttare un privilegio che mi era stato concesso, in virtù della mia assiduità e della mia solvenza, e cioè curiosare, di tanto in tanto, nelle oscure stanze dove la tenda rimaneva scostata. Una ragazza a torso nudo, vestita solo con una gonna verde a disegni bianchi, giocava con un capretto, gli passava velocemente un braccio sopra e sotto la testa: l’animale le appoggiava sul ventre le zampe anteriori e muoveva il capo tentando di seguire il movimento del braccio. In un’altra stanza, Yellapa, una quindicenne dal volto delizioso, si lavava con una spugna dentro una tinozza colma d’acqua. Seduta sul letto, reggendo con il moncherino del braccio sinistro l’asta d’uno spazzolone, mentre con l’unica mano si portava alla bocca dei semi di sesamo, una donna anziana, la madre di Kanta, le parlava in hindi con brevi scatti di voce profonda, come se le facesse delle importanti raccomandazioni. Vedendomi sulla soglia della stanza, Yellapa sorrise, e rise di cuore, passando a colpirmi col fragore erotto dalla gola sussultante dopo avermi attirato nella luce del volto come una falena su una torcia elettrica. Uscì nuda e bagnata dal tino, e lasciando una scia d’acqua sul pavimento –per le riprovazioni della vecchia- mi gettò le braccia al collo e in inglese mi biascicò all’orecchio: “Portami via di qui”, e il suo riso era incrinato e gli occhi attraversati da un baleno umido. “Ma dove vuoi che ti porti?”, dissi. “A casa, al Sud”, disse con un filo di voce.
Il ghélasma di Eschilo. Pontíon te kymáton / Anérythmon ghélasma. Se è sorriso, se si riferisce alla vista, al bianco, è un dio splendente nel cielo verticale del corpo. Se è riso, se è riferito all’udito, al fuoco frusciante, allora qui non c’è dio, vi è il suo oblio, scorporo, ascolto rumoroso del frammento.

(da “Moleskine dell’errore”, ebook, Errant Editions)

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