Approfondimenti
GLI IRRECUPERABILI NON ESISTONO: INTERVISTA A DAVIDE CERULLO
Dal libro “Diario di un buon a nulla”:
“Ancora prima di essere vittime dei nostri sbagli eravamo vittime degli altri. Per troppi eravamo i ripetenti, i malacarne, gli analfabeti figli dei disoccupati, quelli con le scarpe bucate e il frigorifero vuoto. La nostra infanzia solo un’emergenza continua, quasi fosse stampato nel nostro codice genetico il rischio, quando eravamo semplicemente esclusi con la morte che ci girava intorno. Avevamo promosso il boss è bocciato la vita, e la Camorra la nostra unica famiglia.”
Ho conosciuto Davide Cerullo qualche mese fa, quando è stato ospite di un noto programma televisivo. La sua vicenda personale di ex-camorrista, ex-detenuto, oggi scrittore e ideatore di un progetto educativo rivoluzionario, che porta avanti con la sua associazione nel cuore di Scampia, ha subito suscitato il mio interesse, in un momento della mia vita particolare, in cui per la prima volta affrontavo con molti dubbi e altrettanto entusiasmo l’esperienza dell’insegnamento in carcere.
Mi sono specializzata in educazione degli adulti e sempre ho prediletto ambienti e persone “difficili”, contesti marginali in cui muoversi non è agevole, ma riserva sorprese e incontri incredibili. A lungo mi sono occupata di emigrazione e ho lavorato con rifugiati e immigrati, con le loro storie e il loro mondo costellato di dolore, speranza e coraggio. L’impatto con la nuova realtà carceraria, tuttavia, non è stato per nulla traumatico, anzi, ho trovato dietro le sbarre un’umanità composita, niente affatto riducibile ai tanti stereotipi che la definiscono, etichettandola malamente. La Poesiaterapia e le metodologie autobiografiche sono stati gli approcci educativi che mi hanno accompagnata in questa esperienza inedita, ma cercavo qualcosa che potesse coadiuvare il mio intervento, renderlo più credibile, da subito, volevo – senza fare riferimento alla mia personale storia – una testimonianza di chi ce l’aveva fatta, di chi era riuscito a trasformare sé stesso e la propria traiettoria esistenziale, anche e soprattutto grazie alle relazione positive, allo studio, alla poesia e alla letteratura, alla scrittura.
Ecco perché le parole di Davide Cerullo hanno risuonato forte in me, e così ho cercato più notizie su di lui e ne ho parlato con i miei studenti: anche molti di loro avevano seguito la trasmissione televisiva, con un misto di curiosità, ammirazione, disincanto.
Verso Natale ho deciso di scrivere a Davide, perché osservavo come l’avvicinarsi delle festività avesse mutato l’umore dei detenuti, una virata improvvisa al nero cupo della disperazione, dell’angoscia, dell’insofferenza. Così Davide mi ha consegnato un messaggio da leggere loro: i riscontri sono stati variegati, c’era chi esternava indifferenza, chi ammirazione, chi contentezza, chi diffidenza (ricordo uno studente ipotizzare che questi messaggi fossero preconfezionati, cioè che Davide non li scrivesse di volta in volta, ma ne avesse uno generico da propinare a chiunque, o peggio, che si servisse di un ufficio stampa per scriverli al posto suo!), ma tutti avevano domande, tantissime, che avrebbero voluto rivolgergli direttamente.
Come fare per poter imbastire un dialogo? Nei mesi del lockdown, quando ovviamente era impossibile andare a far lezione in carcere, Radio Antenna 1 ha ospitato una rubrica pomeridiana, “Libera frequenza”, per gli studenti della sezione carceraria del Lorusso e Cutugno di Torino, curata dalle scuole che operano in carcere, tra cui anche la mia. Ed ecco balenarmi l’idea di intervistare Davide Cerullo, di dare spazio alla sua testimonianza, affinché gli studenti potessero ascoltarla dalla sua viva voce: la riporto di seguito, trascritta fedelmente, con il fine di esplorare meglio il suo universo, soprattutto presente, con i libri e le avventure educative che lo popolano.
Nella tua vicenda personale che ti ha visto prima compromesso con il mondo della criminalità organizzata e dopo scrittore e educatore, che ruolo hanno giocato la parola scritta, la letteratura, la poesia? Puoi raccontarci, in breve, la storia di questa trasformazione straordinaria, che ha inizio proprio da un incontro dirompente con la parola scritta?
Io ci terrei a dire che c’è qualcosa di più forte dell’infelicità, c’è qualcosa di più forte della prepotenza mafiosa, della malavita e della malagente: è la speranza! La speranza nasce proprio dall’incontro con le persone. Noi nasciamo più dagli incontri che facciamo che dai libri che leggiamo, ma questo non per togliere niente alla lettura. Io sono stato riesumato dalla poesia, dai libri, io sono stato salvato da chi ha scritto quei libri, cioè dagli scrittori e dai poeti. Con questo che cosa voglio dire? Che credo fortemente, non posso non farlo, non posso non sperare, per quello che ho vissuto, per la vita penosa che ho fatto, per non essere stato un bambino…io quando ero bambino sognavo di avere una pistola, oggi che sono grande sogno di voler essere un bambino…ne ho passate di tutti i colori: il carcere minorile, la camorra a 10 anni, la consegna di una della piazze di spaccio di Scampia a 14 anni (a 14 anni io guadagnavo 900 mila lire al giorno), l’attentato, l’agguato che la camorra mi ha fatto spezzandomi le gambe, rimanere inchiodato su un letto di un ospedale per 40 giorni, il fatto che io considerassi uomini quelli della malavita, il fatto che io considerassi un uomo il mio capo, il mio boss, il fatto che io considerassi loro più di mia mamma, più di mio padre, più dei miei fratelli, più della mia stessa famiglia…questo è proprio il raggiro del fascino del potere della malavita, della non-vita. Da tutte queste vicende, da tutta questa non-vita, da tutto quanto come ne sono uscito? Ne sono uscito incontrando Pasolini, il suo libro. Il primo libro che ho letto è stato quello di Pier Paola Pasolini “La religione del mio tempo”. Io non avevo mai letto libri, prima, ma già lì attingo la possibilità di essere libero, attingo la possibilità della forza sanitaria della parola, della poesia, che esplode proprio quando meno te lo aspetti, lei arriva inaspettatamente e spacca tutto.
Una cosa che mi è capitata nel carcere di Poggio Reale, nel padiglione Avellino stanza 31, dove eravamo 25 persone, io venivo incarcerato per la prima volta maggiorenne, e lì dentro, tornando dall’ora d’aria…ecco per esempio, questa cosa per me è insopportabile, io non ammetto che la mia vita debba avere un’ora d’aria, io non ammetto che la mia vita, la mia libertà debba essere chiusa a chiave, io non posso ammettere di avere i passi contati e stare in una stanza chiusa, io non ammetto che devo uscire da una stanza quando lo decidono gli altri, ma soprattutto dalla stanza, dalla prigione mentale… io miro alla libertà massima, assoluta, perché la libertà è proprio il bacio più bello della vita…Stavo dicendo…in questo carcere, in questa cella, tornando dall’ora d’aria trovo sulla mia branda il primo libro in cui mi imbatto: è il Vangelo, che racconta la vita del più grande psicoanalista di tutti i tempi, si chiama Gesù Cristo. Io tornato dall’ora d’aria, entro nella cella e mi vergognavo quasi di prendere questo libricino, che era proprio sul mio letto…cioè, mi vergognavo perché vivevo in base ai giudizi degli altri, non ero libero, eppure mi credevo immortale, perché quando si è nella malavita ci si crede immortali, ci si crede invincibili, ci si crede i più forti, si pensa “non ci sarà mai uno meglio di me, uno più forte di me, uno più capace di me”…ma questo è il raggiro che ti fa credere il potere, è il raggiro che ti fa credere la malavita, è il raggiro che ti fanno credere quelli che ti si dicono tuoi amici, ma nella malavita non esiste l’amicizia, non esiste l’amore. E allora, metto da parte quello che possono pensare gli altri, salgo sul mio lettuccio, prendo in mano questo libricino, e nelle penultime pagine trovo scritto per tre volte il mio nome: Davide, Davide, Davide. E mi riprendo il mio nome e compio un furto cartaceo, strappo questi fogli e li porto poi con me. La malavita ti toglie anche il nome, io avevo un soprannome, “Ciao Crem” mi chiamavano, e diciamo da quelle pagine io mi riprendo il mio nome: Davide. Poi esco dal carcere e riprendo la vitaccia di sempre, perché fare il camorrista è uno schifo, e poi succede che incontro le persone giuste, che non parlavano ma mi ascoltavano, che non mi giudicavano, che non mi condannavano ma mi accoglievano per provocare in me la credibilità di un riscatto possibile. Guardate, non c’è cosa migliore che vincere tra quelli che erano stati dichiarati perduti.
Gli irrecuperabili non esistono, sono solo l’invenzione della nostra cattiva volontà, non esistono cattivi ragazzi, esistono cattivi maestri. L’incontro con le persone giuste mi ha fatto riflettere: loro mi hanno fatto provare il senso di colpa per quello che facevo e ho lasciato tutto e me ne sono andato da casa mia, dove i miei fratelli, 6 femmine e 8 maschi, eravamo tutti coinvolti, ho detto basta, rivoglio la mia vita, la mia identità, la mia dignità, costi quel che costi, è vivere che voglio, voglio la mia libertà, voglio la mia dignità, voglio essere non più personaggio ma persona. Ho iniziato a vagare un po’ così, poi ho preso il mio primo treno, e me ne sono andato in una famiglia a Modena, dove mi hanno accolto, mi hanno in qualche modo adottato. Mi sono messo a lavorare, sono andato in fabbrica, e piangevo quando mi sono visto tra le mani la mia prima busta paga…poi mi sono sposato, ho avuto due figli, e 6 anni fa sono tornato a Scampia, poi ho scritto dei libri, un libro anche in francese, per esempio “Lettere da un mattatoio italiano” che sono lettere dal carcere, poi sono diventato scrittore, non scrittore, non mi piace che mi si definisca scrittore, sono diventato uno che ha provato a organizzare delle parole e a dire qualcosa.
La scrittura, ragazzi, la scrittura, scrivere è un modo di tirare fuori…sapete che quando si lavora la terra per farla respirare e farla diventare fertile, bisogna vangarla, per rigirarla, ed è faticoso vangare, scavare…è faticoso scavare dentro di sé, e la parola fa questo lavoro, ha questo effetto. Scrivere è svuotarsi dell’inutilità delle cose, per fare spazio al nuovo, al bello, alla forza sanitaria della parola, ed è fondamentale. Guardate che io mi sono alleggerito, non ho incolpato niente e nessuno, ho semplicemente voluto lavorare su me stesso, io sono la cura di me stesso, io sono il mito di me stesso. Scrivere per me ha significato questo: riprendermi la mia vita, senza rimpiangere il passato, senza piangermi addosso, senza accusarmi, vivere, vivere…io ho vissuto da solo, senza mio padre, senza mia mamma, che non sapeva neanche come essere madre, eppure non ho accusato nessuno, ma ho detto a me stesso: “Davide, adesso ce la devi fare! Adesso devi metterti in cammino! Adesso devi guardarti dentro! Adesso devi scoprire, nell’umano più umano di te stesso, la vita!”. Ragazzi, la vita è una figata, è una cosa meravigliosa, bisogna stringere i pugni e scrivere, da una parte la penna, dall’altra parte il pungo chiuso, perché la rabbia deve diventare protesta, deve sfociare in vita, in pensieri liberi, in idee.
Amate lo sport, ma non siate tifosi, amate la poesia, amate la natura, gli alberi, le montagne, i mari, i fiumi, amate gli animali, amate la vita, amate il tempo…mi hanno sempre detto che il tempo è denaro, ma non è vero, il tempo è dono, non può essere denaro il tempo, il tempo è per-dono, dono perdono, è una bomba questa cosa…Noi abbiamo bisogno di perdonarci, perdonarci significa ritrovare la propria pace, la propria identità, la propria direzione di vita, è fondamentale. Bisogna ritornare in sé stessi, fare un viaggio all’interno di sé stessi e ritrovare la parola, la parola che diventa azione, rel-azione, relazione, e nella relazione che c’è l’azione.
Vi dico l’ultima cosa: mi ha colpito tantissimo…sono stato in un carcere minorile a trovare dei ragazzi, mi aveva chiamato la direttrice, e mi hanno portato su alle celle, e vedere questi ragazzi chiusi dentro le celle non è possibile, la vita non è una cella, il tempo non è una cella, la parola non può stare imprigionata, deve uscire, ha bisogno di respirare…Quando sono andato nel corridoio di queste celle, c’è stato un ragazzo che ha tirato fuori il braccio, voleva darmi la mano, gli ho dato la mano e mi ha tirato vicino alla sua cella e mi ha chiesto una cosa semplice: mi ha chiesto un abbraccio. Noi abbiamo bisogno di abbracci, noi abbiamo bisogno di relazioni, noi nasciamo dalle relazioni, noi ci riprendiamo la nostra vita attraverso le relazioni.
E pensato che io, credendo questo, oggi a Scampia, ho aperto una associazione, con tanta fatica, questa associazione si chiama “L’albero delle storie”, ed una cosa che guarisce, e porta il sorriso, riporta la vita e la responsabilità di ognuno a fare la propria parte…e allora ci siamo messi a piantare alberi, fiori, ci siamo messi a costruire case, a ospitare galline, conigli, capre, caprette che fanno felici i bambini, perché i bambini parlano con gli animali, le nostre galline fanno le uova, noi accendiamo il fuoco, e sono queste cose che ti riconsegnano alla vita, direi quasi che aggiungono anni alla tua vita. Noi vogliamo continuare in questa direzione proprio per aggiungere gli anni alla nostra vita, e questo cambiamento richiede tempo, è una resurrezione a piccoli sorsi, però bisogna incamminarsi per poi raggiungere la possibilità di diventare consapevoli della grandezza che ci portiamo dentro, perché in noi c’è ben più di noi!
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