IL CAMBIAMENTO POSSIBILE: INTERVISTA A CARMELO MUSUMECI

 

 

Di che cosa sia esattamente il carcere e dei destini di migliaia di detenuti che vi sono rinchiusi, non interessa molto alla gente comune. Anche io, prima di andarci a lavorare in qualità di insegnante, non me ne preoccupavo granché. Mi sembrava un mondo così distante da quello che abito, così diverso, che non immaginavo nemmeno lontanamente che cosa potesse significare trovarsi a vivere al suo interno, privati della libertà e di altri fondamentali diritti, persi all’interno di un ingranaggio che sebbene sulla carta sia finalizzato soprattutto alla riabilitazione, è nei fatti un dispositivo di sofferenza, in cui si scontano i propri crimini esperendo una condizione di estremo malessere, che poco favorisce un’assunzione di responsabilità, un radicale ripensamento di sé stessi, una rinascita.
Condividere le storie di chi ha attraversato la zona liminale della detenzione ed è sopravvissuto, nonostante tutto, trasformando la propria esistenza e scegliendo un nuovo cammino: questa forse è una possibilità per provare ad avvicinarsi a quel mondo invisibile, da cui solo di rado giungono voci e notizie, che spesso non trovano accoglienza, perché è molto radicata la convinzione che tutto sommato chi è finito in carcere meriti di soffrire, a causa del danno che ha arrecato alla società, che questo male sia una giusta punizione per le colpe di cui si è macchiato.
Carmelo Musumeci è una di quelle voci, una voce speciale, che per oltre venticinque anni ha testimoniato l’inferno dei reclusi per i quali il fine pena è fissato al 31 dicembre 9.999, gli ultimi fra gli ultimi, gli “uomini ombra” condannati all’ergastolo ostativo. Per la legge italiana chi è condannato all’ergastolo può avere accesso al regime di semilibertà e alla libertà condizionale, godere di permessi e, una volta trascorsi ventisei anni di detenzione, essere ammesso alla liberazione condizionale. Non è così per l’ergastolano ostativo, che non ha diritto a benefici penitenziari in assenza di una “condotta collaborante” con la giustizia. Negato l’accesso a benefici e misure alternative al carcere, il termine della detenzione va dunque a coincidere con la durata intera della vita.
Grazie a una sentenza della Consulta, che ha stabilito che non può essere chiesta la collaborazione con la giustizia quando è inesigibile, Carmelo Musumeci è riuscito a ottenere nel 2018 la liberazione condizionale, e il riconoscimento del suo “grande percorso di crescita personale che [lo ha] portato a leggere e studiare in carcere con granitica volontà” e del suo straordinario cambiamento, che lo ha reso “un uomo nuovo, che si riscatta dal passato impegnandosi quotidianamente coi disabili”, come si legge nell’ordinanza che gli ha restituito la libertà.

«Ancora non sapevo che era più bello perdonare che odiare. Arrabbiato con il mondo, cercai a ogni costo di diventare cattivo. Sentii che avevo tutte le ragioni per essere cattivo, non potevo e non volevo scegliere di non essere cattivo. Iniziai quindi una vita da cattivo. Cercai la giustizia nel male. […] Ero circondato da nemici ed ero in guerra con il mondo. Non sapevo ancora che ero in guerra solo con me stesso.» In questo significativo estratto del tuo libro “Nato colpevole” racconti il percorso autobiografico di un te molto giovane, che sceglie la strada senza uscita della criminalità: puoi raccontarci quei passaggi fondamentali della tua storia familiare e personale che hanno portato alla tua condanna?

Sono nato il 27 luglio del 1955 ad Aci Sant’Antonio, in provincia di Catania, e ho vissuto fino all’età di dieci anni in Sicilia. Abitavo alla periferia del paese, in una piccola casa di due stanze e cucina, in una viuzza chiusa. Io e i miei fratelli, uno più piccolo e l’altro più grande di me, dormivamo in cucina, due in un letto e uno in un altro lettino. Il nonno e uno zio erano andati a lavorare in Svizzera, mentre mio padre era emigrato in Francia. Mia madre faceva avanti e indietro fra noi e nostro padre e per lunghi periodi non la vedevamo. Sia io che i miei due fratelli siamo stati cresciuti dalla nonna materna e dalle zie, sorelle di mia madre. Passavo le giornate nella viuzza insieme a tutti gli altri bambini, scalzi e affamati, ma felici di stare tutto il giorno fuori di casa a scorrazzare per i campi e a rubare la frutta, a salire sugli alberi e ad andare a caccia di lucertole e rane. Spesso di sera, quando rientravo a casa, non c’era quasi nulla per cena e sia io che i miei fratelli andavamo a letto dopo aver mangiato solo pane bagnato nello zucchero. A volte mia nonna mi portava con lei a fare la spesa al mercato: mi aveva addestrato che mentre lei dava da parlare, io dovevo rubare quello che potevo. Una volta mi scoprirono e mi arrivò uno schiaffo in faccia da mia nonna, mentre mi gridava: “Quante volte ti devo dire che non devi rubare!”. Poi a casa mi diede il resto, sia perché mi ero fatto scoprire, sia perché le avevo fatto fare brutta figura. All’età di sei anni andai a scuola ma le mie assenze erano così tante che alla fine fui bocciato. Ci riprovai l’anno successivo e questa volta fui promosso in seconda elementare. Anche in seconda elementare fui bocciato, ci riprovai l’anno appresso e passai in terza elementare. Ma ormai per la mia famiglia ero già grande per iniziare a lavorare: avevo nove anni e andai a lavorare con mio zio nella muratura.
In seguito, a causa della separazione dei miei genitori, fui costretto a emigrare con mia madre e i miei fratelli in Liguria, a La Spezia, per poi essere rinchiuso in collegio, dove mi sono sempre mancati la famiglia, gli effetti, l’amore, un punto di riferimento a cui aggrapparmi per sfogare le mie angosce e la mia tristezza di adolescente abbandonato a sé stesso. Non riuscivo ad adattarmi alle regole rigide del collegio, non volevo farmi il segno della croce prima di mangiare, non volevo stare composto a tavola e usare le posate. Un giorno scappai per i campi e dopo una terribile notte di paura passata a dormire all’aria aperta, mi ripresero l’indomani dei contadini e mi portarono dal prete che dirigeva il collegio. Questo mi riempì di botte e mi rinchiuse in una stanza al buio, senza acqua e senza mangiare. Fui poi espulso, ma mia madre mi portò nel collegio di Pontremoli. Durai pochi mesi e cambiai ancora, ma dopo il collegio di Monterosso mia madre si rassegnò a portarmi a casa: avevo vinto! Non avevamo una casa comoda dove abitare, il lavoro scarseggiava e io trovavo grande difficoltà a inserirmi in una regione diversa da quella di provenienza. Il tutto risultò molto difficile, così intrapresi la strada di violare la legge commettendo dei furtarelli per procurarmi dei denari. Vedendo il facile guadagno, la considerai la via migliore per poter aiutare la mia famiglia e in seguito commisi reati un po’ più gravi.
Nel 1972 fui preso insieme a due compagni dopo una rapina a un ufficio postale. Eravamo tutti e tre minorenni e ci portarono nel carcere di Marassi a Genova. Al piano terra c’erano tutti i minorenni mentre al piano di sopra c’erano i detenuti adulti.
L’impatto con il carcere fu tremendo. Quando uscii, intrapresi la carriera criminale grazie anche alle conoscenze che avevo fatto nel carcere minorile. In seguito alle mie scelte devianti e criminali, a causa di una guerra fra bande rivali per il predominio di attività illecite nel territorio, nel 1991 sono stato condannato all’ergastolo e sottoposto al regime del carcere duro (41 bis) per reati di mafia, omicidio, droga estorsioni. Sulla mia motivazione di condanna i giudici hanno scritto che contro alcuni avversari – che mi avevano sparato sei colpi di pistola (tutti andati a segno) e avevano tentato di darmi fuoco con la benzina – ho usato la legge che ho appreso nell’ambiente in cui ho vissuto, cioè mi sono fatto giustizia da solo. Molti di noi si sentivano ed erano in guerra e spesso ammazzavano per non essere ammazzati. Non è una giustificazione, ma la stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi non ha mai ammazzato un “innocente”. Purtroppo ad alcuni è accaduto, ma le mele marce non ci sono solo fra i politici, i giudici, gli imprenditori e i funzionari di Stato: ci sono anche nella malavita.

 
Nel corso della tua vita da detenuto sei diventato portavoce della disperazione che segna, senza possibilità di riscatto, i condannati all’ergastolo ostativo, e ti sei attivato affinché le istituzioni e l’opinione pubblica fossero sensibilizzati rispetto alla disumanità di un regime detentivo che nega persino il conforto della speranza: che cosa significa ricevere una condanna all’ergastolo ostativo?  

L’ergastolo ostativo è una pena senza fine, senza nessuna possibilità di liberazione, a meno che al tuo posto in cella non ci metti qualcun altro. In altre parole, se parli e confessi puoi uscire, altrimenti stai dentro fino all’ultimo dei tuoi giorni, come nel Medioevo. Gli ergastolani sono vivi perché continuano a respirare, ma sarebbe meglio fossero morti perché è terribile non essere né vivi né morti. La pena dell’ergastolo assomiglia a una morte al rallentatore bevuta a gocce perché si muore un po’ tutti i giorni e tutte le notti. A me non è accaduto grazie a una coraggiosa sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, che dopo più di un quarto di secolo ha tramutato il mio ergastolo ostativo in quello ordinario, che mi ha dato la possibilità prima di uscire in permesso premio, poi in semilibertà e adesso in liberazione condizionale.
 

«Per i Senzanima il detenuto non è un uomo, è solo un pezzo di legno da accatastare in una cella. Per loro se sei in carcere qualcosa hai fatto e se non hai fatto nulla vuol dire che sei scemo a stare lì dentro. Solo adesso ho imparato a perdonare gli uomini e le donne che lavorano in carcere, ma non riuscirò mai a perdonare l’Assassino dei Sogni [il carcere], il mostro dei mostri che trasforma le persone in schiavi. Fa credere che è comandato dai Senzanima, ma non è così: è lui che comanda loro. Gli uomini e le donne che lavorano in carcere, pur nella loro ferocia, sono umani, l’Assassino dei Sogni no. Lui è il male assoluto: si mangia con lucidità le nostre vite e sputa le nostre anime. Fa finta di applicare la legge, invece sa solo odiare. E odia soprattutto la libertà, non solo quella fisica, ma soprattutto quella mentale. Odia anche i sogni, per questo l’ho chiamato l’Assassino dei Sogni. In carcere è difficile non piegarsi e non rassegnarsi, ci riescono solo i cattivi, per questo pensai di sforzarmi di diventare subito ancora più cattivo. Proprio l’Assassino dei Sogni mi avrebbe aiutato a diventarlo. Per farmi coraggio pensai che non avevo nulla da temere, l’unica cosa che il carcere mi poteva togliere era la libertà. Mi sbagliavo, l’Assassino dei Sogni ti toglie tutto e vince sempre, ma ancora questo non lo sapevo, lo avrei capito molti anni dopo.» In questo passo del tuo libro “Nato colpevole” parli del carcere come “l’Assassino dei sogni” e definisci gli agenti penitenziari i “Senzanima”. Puoi provare a raccontarci com’è la vita in carcere, al di là dei luoghi comuni e dei pregiudizi che spesso orientano i discorsi dell’opinione pubblica?

In carcere a volte per tentare di vivere devi saper morire. E io mi ricordo che iniziavo a morire appena mi svegliavo al mattino. Normalmente mi svegliavo all’alba. Non mi alzavo subito. Stavo un po’ abbracciato con il mio cuore. A volte andavo all’aria a fare quattro passi. Spesso invece rimanevo in cella. Aspettavo che passasse la guardia della posta. E rispondevo alle numerose lettere che ricevevo. La sera mi cucinavo qualcosa. Poi iniziavo a fare su e giù per la cella per aiutare la digestione. E passeggiavo. Avanti e indietro. Tre passi avanti e tre indietro. Quando ero abbastanza stanco, mi sdraiavo sulla branda. Se non c’era nulla d’interessante alla televisione mi mettevo a leggere fino a tardi. Poi mi addormentavo perché non potevo fare altro. Quando penso alla nostra Costituzione mi viene in mente che molti dei nostri padri costituenti erano ex-galeotti e che loro sapevano bene che condannare un uomo a essere cattivo e colpevole per sempre non ha senso perché l’uomo non è solo il male che ha fatto, ma è anche il bene che potrebbe fare. Senza speranza è difficile cambiare o migliorarsi.

Quando sei entrato in carcere avevi solo la quinta elementare. Negli anni della tua detenzione hai studiato molto, conseguendo ben tre lauree, e sei diventato uno scrittore prolifico, dando alle stampe numerosi libri che hanno ottenuto ottimi riscontri. Qual è secondo te il valore dell’istruzione in carcere? Come sei riuscito nonostante tutte le difficoltà a studiare e a laurearti? Quale significato ha per te la scrittura?

Normalmente i prigionieri non scrivono per sé stessi; scrivono per gli altri, scrivono per farsi leggere, scrivono per sentirsi vivi. Io scrivevo appunto per sentirmi vivo, perché la vita chiusa in una cella senza speranza e senza futuro è di un’inutilità totale. Se mi limitassi a guardare soltanto il carcere, potrei dire che non solo mi ha peggiorato, ma mi ha anche fatto tanto male. Ciò che mi ha migliorato e cambiato non è stato certo il carcere, ma lo studio, l’amore della mia compagna, dei miei due figli, le relazioni sociali e umane che in tutti questi anni mi sono creato, insieme alla lettura di migliaia di libri di cui mi sono sempre circondato, anche nei momenti di privazione assoluta. Ed è proprio questo programma di auto-rieducazione che mi ha aperto una finestra per comprendere il male che avevo fatto e avere così una possibilità di riscatto. Molti non lo sanno, ma forse la cosa più terribile del carcere è accorgersi che si soffre per nulla. Ed è terribile comprendere che il nostro dolore non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati. Spesso ho persino pensato che il carcere faccia più male alla società che agli stessi prigionieri perché, nella maggioranza dei casi, la prigione produce e modella nuovi criminali.

Ci sono delle storie che ti sono rimaste impresse tra tutte quelle che hai ascoltato dagli altri detenuti? Vuoi condividerne una con noi?

Questo racconto di Matteo Greco sul carcere di Pianosa:
“Ormai da parecchie ore mi sono addormentato, a un tratto mi sveglio di soprassalto, alcuni secondini hanno aperto la porta blindata ed il cancello, entrano in cella, circondando la branda e mi dicono: “Alzati, devi partire.” ― Per dove? Un secondino, con la mano destra, mi prende per i capelli tirandomi fuori del letto, un altro mi dà un pugno dall’alto verso il basso sul collo. Cerco di difendermi. Mi si buttano tutti e sei addosso con pugni e calci, riesco a dare qualche pugno, cado per terra, mi rialzo, cado per terra, mi rialzo di nuovo finché ricado per terra per non avere più la forza di rialzarmi. In faccia sono una maschera di sangue, non ho detto una parola, né un lamento, si sono sentite solo le grida dei secondini. Mi portano all’ufficio matricola, ancora tutto stordito mi vengono messi i tre pizzi (manette) salgo su un furgone blindato. Vengo fatto scendere all’aeroporto militare. Non chiedo dove mi stanno portando e dove sono i miei vestiti. Infatti, l’unico vestiario che ho è il pigiama che indosso e un paio di ciabatte di plastica ai piedi. Mi fanno salire su un elicottero militare, un rumore assordante, non mi è stata data la cuffia. Dopo molte ore arrivo all’isola di Pianosa e lì mi attendono una trentina tra secondini, carabinieri e finanza. È il 22 luglio 1992, ore 19 e 20, un caldo insopportabile. Finalmente è spento l’elicottero, una liberazione per le mie orecchie, ancora tutto stordito mi fanno scendere. Appena metto i piedi a terra alcuni secondini mi danno pugni e calci, vengo preso di peso come un fiammifero e vengo lanciato dentro una Jeep, sbatto la testa sulla sbarretta del bracciolo del seggiolino, le manette mi vengono messe ancora più strette, bloccando il passaggio del sangue dei polsi. Mi danno un pugno sulla testa gridando: “Abbassa la testa, bastardo”. Dopo cinque minuti di strada mi fanno scendere con uno spintone, cado per terra, per istinto mi porto l’avambraccio al viso riparandomi, vengo sollevato di peso con schiaffi e calci, fatto entrare in un fabbricato e messo in una cella d’isolamento, tre metri per due, una branda di ferro massiccio saldata per terra, un lavandino d’acciaio saldato al muro, sopra un rubinetto con acqua salata non potabile. L’isola di Pianosa è sprovvista d’acqua dolce, è portata sull’isola dalla nave cisterna che la preleva da Piombino. Per bere si consuma acqua minerale imbottigliata. La direzione passa solamente un litro al giorno, l’altra la dobbiamo comprare da noi se non vogliamo patire la sete. A fianco del lavandino c’è il gabinetto alla turca, a destra una mensola di ferro saldata al muro, a terra nel mezzo un seggiolino. I muri sono umidi si sono formati alcuni canaletti che conducono fino al pavimento, l’acqua scorre come nei campi di riso. Mi viene ordinato di spogliarmi, rimango nudo, fatto abbassare a quattro zampe, mi vengono allargate le chiappe per guardare meglio nel buco, mi fanno aprire la bocca, alzare la lingua per ispezionarmi meglio, mi guardano persino dentro le orecchie e i fori del naso. A un tratto si scagliano di nuovo come belve assetate sul mio povero corpo, il pestaggio dura alcuni minuti lunghi come un’eternità! Svengo! Riprendo i sensi con una puntura fattami da una dottoressa, la quale vedendomi esclama: “Ma come è ridotta questa persona?”. Il suo lavoro (perché obbligata) è di far finta di nulla, infatti, nel certificato per la medicazione scrive: Trattasi di una piccola escoriazione sulla fronte scivolando in cella. Mi è imposto di firmare che sono caduto da solo e vengo lasciato per alcuni giorni in cella di isolamento, un litro d’acqua da bere al giorno, 200 grammi di vitto con dentro cicche di sigarette e pezzettini di vetro. Spesso entrano in cella con una sbarra per battere le sbarre, mi ordinano di stare dritto e di abbassare la testa, di guardare per terra, con le mani dietro la schiena e sono costretto a salutare senza ricevere risposta sia all’entrata dei secondini, sia all’uscita, per quattro volte al giorno. Mi è consegnato un documento che mi è stato applicato il 41Bis.”

Se tu potessi cambiare l’istituzione carceraria, come la trasformeresti? Che cosa potrebbe essere realmente utile ed efficace, secondo la tua esperienza, per accompagnare le persone che hanno commesso reati nel loro percorso di acquisizione di consapevolezza, di trasformazione e di riabilitazione?

Il miglior carcere è quello che non costruiranno mai. Penso che il carcere dovrebbe essere come un ospedale dove ti guariscono dei tuoi mali. Penso che qualsiasi pena non dovrebbe punire, ma fare del bene per farti uscire il senso di colpa del male matto. Se una pena fa solo male, ti trovi gli alibi per il male che hai fatto.

Nel salutarti e nel ringraziarti per la tua disponibilità, ti chiedo se vuoi condividere con le lettrici e con i lettori una citazione tratta da uno dei tuoi libri, che per te ha un particolare valore.

«Penso che, più che amare Dio, bisogna amare i lupi, anche quelli più cattivi, perché se tu credi che un lupo non sia mai perduto per sempre, lo stai già aiutando a essere migliore. Forse ci sono anche dei rischi, ma io credo che valga lo stesso la pena di provarci, perché tutti possono diventare lupi migliori… E credo che spesso siano proprio i lupi buoni, più di quelli cattivi, a essere malvagi.» (Tratto da “Zanna Blu. Le nuove avventure”, prefazione di Margherita Hack).

 

Carmelo Musumeci (http://www.carmelomusumeci.com/) è nato nel 1955 in Sicilia. Condannato all’ergastolo ostativo, è ora in liberazione condizionale presso una Casa Famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, dove vive e lavora. Promuove da anni una campagna contro il fine pena mai, per l’abolizione dell’ergastolo.
Entrato in carcere nel 1991 con licenza elementare, oggi ha tre Lauree. Dal 1992 al 1997, mentre è all’Asinara in regime di 41 bis, riprende gli studi e da autodidatta termina le scuole superiori. Nel 2005 consegue la prima Laurea in Scienze Giuridiche, con una tesi in Sociologia del diritto dal titolo Vivere l’ergastolo, relatore Prof. Emilio Santoro. Nel Maggio 2011 si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Perugia, con una tesi dal titolo La ‘pena di morte viva’: ergastolo ostativo e profili di costituzionalità, con relatore il Prof. Carlo Fiorio, docente di Diritto Processuale Penale, e Stefano Anastasia, ricercatore di Filosofia e Sociologia del Diritto e Presidente onorario dell’Associazione Antigone per la difesa dei diritti dei detenuti.
Nel 2016 si è laureato in Filosofia, con votazione 110 e lode, presso l’Università degli Studi di Padova, discutendo la tesi Biografie devianti, relatrice Prof.ssa Francesca Vianello.
Ha pubblicato:
nel 2010 il libro “Gli uomini ombra”, nel 2012 “Undici ore d’amore di un uomo ombra”, prefazione di Barbara Alberti, e “Zanna Blu”, con prefazione di Margherita Hack, editi da Gabrielli Editori;

nel 2013 “L’urlo di un uomo ombra”, Edizioni Smasher;
nel 2014 con Stampa Alternativa-Nuovi Equilibri, per la collana Millelire, “L’Assassino dei Sogni”, Lettere fra un filosofo e un ergastolano, di Carmelo Musumeci, Giuseppe Ferraro;
nel 2015 per Edizioni Erranti “Fuga dall’Assassino dei Sogni”, di Alfredo Cosco e Carmelo Musumeci, con prefazione di Erri De Luca;
nel 2016 “Gli ergastolani senza scampo” Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo di Carmelo Musumeci / Andrea Pugiotto, con prefazione di Gaetano Silvestri e un’appendice di Davide Galliani, Editoriale Scientifica;
nel marzo 2017 “Angelo SenzaDio” con CreateSpace Independent Publishing Platform, prefazione di Agnese Moro;
nel novembre 2017 “La Belva della cella 154” sempre con CreateSpace by Amazon, prefazione di Alessandra Celletti;
nel 2018 “Nato colpevole” con CreateSpace Independent Publishing Platform, prefazione di Francesca Barca;
nel luglio 2019 “Illuminato Fichera – La libertà nell’era del carcere” di Carmelo Musumeci e Daniel Monni, prefazione di Luca Bresciani;
nel dicembre 2019 “Diventato colpevole – Il Signore delle bische” per KDP di Amazon;
nel novembre 2020 “Il buono e il cattivo” per KDP di Amazon, prefazione di Nadia Bizzotto;
nel giugno 2020 “Le vostre prigioni” per KDP di Amazon.