HO SALVATO LA VITA A VIRGINIA WOOLF

a cura di Lisa Orlando

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Erano precisamente le dieci del mattino; i rintocchi fluttuarono sopra i quartieri della città, si fusero con quelli di altri orologi, si mescolarono in sottil modo etereo con le nubi e morirono lassù, fra l’azzurro pallido e i gabbiani – le dieci ore rintoccarono mentre Virginia prese dallo scrittoio carta, inchiostro e, sotto un lumino tremante, iniziò a scrivere una lettera a Leonard. Tutto era pronto. Tutto già deciso, poiché nulla più poteva ravvivare in lei gli occhi avvizziti, nulla più spegnere quella voragine che s’era messa a tuonare ininterrottamente dentro l’anima. E le voci… quelle voci che insistenti le rimbombavano nella testa; solo per alcuni attimi s’acquietavano, ma poi riprendevano, deliranti, vaneggianti, come assoli impazziti, e fino a squassarle sinistramente il cervello.

Aveva sfidato tante di quelle volte l’angoscia che avanzava verso il cuore e la costringeva a lottare per ogni filo di fiato; “resisti”, si diceva, “la notte buia passerà”. Invero, dopo essere stata inchiodata a letto tante settimane, addirittura mesi alle volte, con un cancro per cuscino, la luce ritornava, trionfante, quella luce come di fiammifero istantaneo che la restituiva alla vita, alla necessità di una vita quasi più pura, e al contempo più vibrante, più scalpitante.

Dicotomia vita e morte – il di qua e l’al di là –; il fiammifero che s’accende e strappa alla cenere, il fiammifero che si spegne e fa tacere tutte le forme e rende nullo pure il silenzio. Fino ad allora, aveva vinto il di qua e, pur nella sua grama salute, il fiammifero acceso. Ma questa volta era diverso. Tutto era di più di un disperato autunno, tutto era di più di un mormorio di voci che non si riesce a collegare alle proprie labbra; e le braccia di Leonard, le dolci braccia, null’altro le trasmettevano, se non una flebile presenza illusoria.

Si sentiva annosa, indicibilmente; dove risuonava il vigore della giovinezza? Restava a guardare fuori, attraverso i vetri della finestra, per ore, addirittura per giorni interi, restava lì, immobile, e con quella brutta sensazione addosso di sentirsi sola, e di trascinare il respiro come fosse una sfera di ferro. Ormai non l’abbandonava più neppure l’antico sgomento: l’idea di quanto fosse pericoloso vivere, anche un giorno soltanto. L’indomani, ad esempio, avrebbe rivisto Nessa? E dov’era Leonard quella mattina? Rannicchiato nella poltrona, immerso nella lettura del «Times»? Aveva, ora, appena alzato gli occhi al cielo per il rombo sinistro di un aeroplano? Era assurdo guardarsi le domande affondare nel terrore. Ma quella follia che puzzava di becchini, e s’aggirava coi carri armati, e puntava le armi, poteva stringere tutti nel suo cappio funereo da un momento all’altro.

E allora la morte, la morte diventava quasi un pensiero consolante contro quel continuo assillo di voci, contro quel nero insulto di sbarre, il groppo appiccicoso da cui nessuno l’avrebbe fatta più uscire. La morte era il definitivo oscuramente di sole, l’eclissi assoluta? Sì, lo era. Ma allo stesso tempo credere che, in qualche modo, per le strade di Londra, lei sarebbe sopravvissuta, facendo parte degli alberi intorno, familiari; di quella sua casa; parte di quelle persone sconosciute; e diffondersi come vapore fra coloro che meglio conosceva, che l’avrebbero sollevata sui rami come aveva visto gli alberi sollevare la nebbia. In lungo e in largo si sarebbe così diffusa la sua vita, lei stessa; ecco, fu questo il pensiero di Virginia quando l’undicesimo rintocco inondò la stanza insieme a un ballettio cupo d’una folla di foglie; abbassò la maniglia, aprì la porta e si diresse in quel luogo che da tanto tempo, ormai, avvertiva come il suo destinale: il fiume Ouse.

Come si cammina quando tutto il futuro dinanzi, assolutamente tutto, e anche gli occhi verdi di quella donna che era a pochi metri di fronte a lei, non sarebbero stati niente, non avrebbero potuto essere più niente? Lei camminava piano, cosciente di un freddo che le attraversava tutto il corpo e le causava crampi, ma procedeva, inflessibile, senza fermarsi, annusando ancora una volta gli odori dei fiori, intorno. Erano narcisi, erano magnolie, erano viole; ogni fiore sembrava avvampare di per sé nel verde scuro delle aiuole. Ma come era possibile che, anche ora, nei singhiozzi più cupi del cuore, riuscisse a inseguire cogli occhi eccitati quella falena bianco-grigia che volteggiava là, in quel preciso momento nell’aria, e andava e veniva, e poi si fermava sopra l’elleboro, e ancora svolazzava bordeggiando le primule serotine? com’era possibile? No, non poteva più ripensarci: lo scorpione si infligge il proprio pungiglione quando è afflitto e altro non vede che ombre. L’inesplicabile tentazione di suicidio non è poi così tanto inesplicabile. Poiché anche quell’atto estremo, per assurdo che possa sembrare, per drammatico che possa sembrare, è una sorta di arrendevole acquiescenza a ciò che crediamo buono e giusto per noi. Lo aveva scritto anche a Leonard nella lettera che gli aveva lasciato e che, forse, avrebbe letto di lì a poco: questa volta non ce l’avrebbe fatta: stava impazzendo di nuovo, e sentiva quelle voci, di nuovo. La realtà ormai pareva precipitarle addosso, si mostrava in tutta la sua forza; crudelmente satura non si sarebbe dissolta nel vento della notte. Il giorno dopo sarebbe stato di nuovo così, e così, e così. E nulla avrebbe potuto fare la ragione se non prendere atto che le voci sarebbero aumentate, e la paura, e il sudore nelle mani, e la stanchezza; l’atroce stanchezza che la sfiatava e la rendeva incolore nel gelido limbo! Come avrebbe potuto vivere un solo giorno di più?

C’è una cosa che conta… una sola cosa che conta nella vita, e che viene adornata di chiacchiere, deturpata, annientata, giorno dopo giorno, lasciata lì a corrompersi, tra insulsaggini e menzogne. Lei, invece, l’avrebbe preservata. La morte è, assurdamente, un atto di salvezza. La morte è quello sforzo di comunicare, sacrificio estremo quando s’avverte l’impossibilità di afferrare quel centro, quella meta che ci elude: ciò che è intimo diviene separato, l’estasi si dilegua; si è soli, soli… ineluttabilmente. Allora lei si sarebbe lasciata inghiottire, sopraffare dalle acque, e nel fondo del fiume avrebbe custodito al fine il suo tesoro.

Ma… Leonard, l’avrebbe compresa? Ma, soprattutto, mentre lei buttava la sua vita nel fiume, cosa avrebbe fatto lui? Sarebbe caduto nella disperazione. Affranto, solo, avrebbe cercato un modo per tenere a bada la morte?; e trovato qualcosa, una qualunque cosa, una frottola magica per averla ancora con sé? Oppure sarebbe morto, morto come lei; si sarebbe ucciso, come lei, stanco di dover combattere sempre contro quell’assurda necessità di dover affermare se stessi per non cadere nell’imbuto del buio. Questi pensieri la agghiacciarono, la fecero rabbrividire fin nel midollo, le gambe presero a tremarle fortemente, allora si fermò, per un attimo, con lo schermo delle mani avanti al viso. Ma cosa stava facendo? Cosa?

Il fiume era a pochi metri dinanzi a lei, si estendeva vitreo e luccicante in tutta la sua placidità; pareva un letto incantato, d’acqua. C’era silenzio intorno, si sentiva solo un flebile sciabordio di conchiglia. Virginia cominciò a raccogliere dei sassi, li strofinava contro il cappotto e poi se l’infilava nelle tasche, uno dopo l’altro. Ecco, così l’avrebbero trovata, contemplando il gesto supremo: il corpo pesante, gremito di pietre, nel sonno eterno. Intanto continuava a camminare verso il fiume, lentamente. Tutto sarebbe finito di lì a poco: l’angoscia, le voci, e quell’infermità che le serpeggiava nel corpo. Le scarpe le si bagnarono lungo i bordi. Ma cosa stava facendo? Era davvero quella l’ultima meta dopo essere passata per la porta della vita? E se avesse potuto trovare di nuovo conforto nell’amore di Leonard? Dopotutto si era sempre salvata così, rannicchiandosi accanto a lui come un’uccelletta; e a poco a poco si spegneva il terrore e quel senso di impotenza che t’affida la vita. E con quanta forza poi, con quanta severa volontà ritornava al suo intimo, alla casa abbandonata del proprio cuore, la cui finestrella di vetro s’affumicava a tal punto da non lasciare più filtrare la luce. Strofinando stecco a stecco, connettendo cosa a cosa, recuperava la fede nell’albero del sé, e il senso del proprio viaggio. Improvvisamente si lasciò cadere una pietra che aveva appena raccolto, fece qualche passo indietro e, con i piedi ben saldi alla terra, si mise a guardare, immobile, il cielo.

Quel cielo… quante volte si era affacciata alla finestra a contemplarlo, a Londra, nelle notti d’insonnia. C’era – per folle che fosse l’idea – qualche cosa di lei, in quel manto lassù, sopra il fiume. Non era un cielo solenne, non aveva neanche l’azzurro del cielo-gabbiano, era un cielo d’un celeste pallore percorso da naviganti nubi, ora come veli sottili di donna, ora come messaggi filiformi, e veleggianti, dileguanti; immense vele, con un perenne daccapo, continuamente cangianti. Quanta bellezza! Fu scossa da un brivido. No e poi no, noi non siamo un tributo a queste tenebre, a questi orrori del mondo, si disse. C’era sempre quella bellezza nelle cose, intorno, che le salvava dalla vanità, dalla consapevolezza che tutto non sarebbe potuto durare; sicché gli occhi le si riempirono di lacrime nel guardare ancora una volta, con la faccia all’insù, quelle nuvole che traversavano il cielo e le donavano, nei loro percorsi inesauribili, immagini, una dietro l’altra, e le rivelavano il disegno oscuro di fornire a lei, a lei soltanto, in quel momento, e per il solo piacere di guardarla, altra bellezza, bellezza ancora… ancora… Le lacrime le rigarono il volto, le colarono fino alle labbra. Sentì un peso venir giù dalle spalle e le voci… le voci languirono un poco nella testa, mitigandosi. Cominciò a togliersi le pietre che s’era infilata nelle tasche. Una, due, tre. Sì, forse poteva farcela, si disse, asciugandosi le lacrime. Quattro, cinque, sei. È che ci si tormenta, alle volte, si viene travolti, come nei viaggi per mare, in cui la furia di violentissimi nodi di vento mette le onde alle stelle ed affonda il legno sui cui ognuno s’imbarca. Non c’è più gioia né consolazione. Eppure, non è proprio in questi momenti che bisogna recuperare tutte le forze per resistere? Sette, otto. Vide un uomo, in lontananza. Veniva fuori da una casa abbandonata. Era zoppo. Aveva una gamba spezzata, forse per una caduta di giovinezza, forse per l’altrui cattiveria, o forse per un difetto congenito, e perciò si muoveva lentamente, incespicando su un piede e sostando spesso ora in qualche fossato – perché il fossato è sempre un poco misura del mondo e della vita – ora nell’ombra di un grande albero dal luccicante fogliame. Eppure non smetteva di camminare. Camminava, piano. Camminava come se non avesse più vergogna, come se avesse smesso di pagare le sue colpe. Camminava.

Ma anche per lei, non era tempo anche per lei di riniziare il cammino? Accogliendo ciò che è di più debole in noi?; non più sfidando, ma accettando di incontrare la morte, la propria, come abisso? Nove, dieci. L’ultima pietra la gettò nel fiume. Sì, era tempo di ritornare – a “casa”. Il sole era sceso, era stato inghiottito da una nuvola, si stava facendo buio, ma “la vita continua, questa vita continua”, ripeté lei fra sé; e le tornarono in mente le parole del poeta: ”Fear no more the heat of the sun…”.

 

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